Oltre cinquecento persone attorno
alle rive del lago di Cavazzo. Un segnale a difesa del bacino idrico,
ma anche dell'acqua come bene comune, della terra e del creato.
Si è chiuso così il 19° convegno del Centro Balducci, dedicato
quest'anno al tema “Ragazzi, ragazze e donne del pianeta, protagonisti
di un futuro umano”.
E' stato proprio il fondatore del centro, don Pierluigi Di Piazza a
ricordare, nel suo intervento introduttivo, il senso della giornata.
“Assumendo l'impegno a salvaguardare la terra, l'aria, il sole, la
luna, le stelle, le piante, l'acqua, le montagne, come beni comuni,
come decisivi per la vita di ciascuna persona e di tutta l'umanità.
Siamo qui – ha detto don Di Piazza – per assumere l'impegno a cambiare
il paradigma culturale che vede l'uomo dominatore della terra. L'uomo è
invece parte di essa”.
Nel ricordare come alcuni paesi dell'America Latina, Ecuador e Bolivia,
hanno riconosciuto nelle rispettive costituzioni il valore dell'acqua
come bene comune, don Di Piazza ha ribadito la necessità di invertire
una tendenza che “vede l'uomo assoluto dominatore”. “Non si può fare
tutto ciò che il progresso tecnologico consente perché le conseguenze
diventano disastrose, per le popolazioni che vengono cacciate, ma anche
per la la manomissione degli equilibri ambientali. La terra è di Dio e
quindi la terra è di tutti”.
Anche negli interventi degli esponenti dei diversi comitati (da quello
“Referendario del Fvg 2 sì per l'acqua bene comune, fino a quello a
difesa e sviluppo del Lago di Cavazzo e ancora l'Associazione Monastero
del Bene Comune di Sezano, il Comitato per la vita del Friuli rurale) è
stata ribadita la necessità di “tutelare il territorio e l'acqua come
bene comune, seguendo una logica basata sull'etica e non sul mero
profitto”.
Particolarmente significative, inoltre, le testimonianze di alcuni
detenuti della casa circondariale di Udine. “Quasi sempre le nostre
bravate finiscono tragicamente – ha raccontato uno di loro - e ci
troviamo increduli e spauriti in una cella anonima, ancora prima della
sentenza di condanna. Abituato alla libertà, al cielo intero, al sole
caldo, alle piogge alla nebbia delle sere autunnali, ai pianti e ai
sorrisi delle persone accanto, all'improvviso tutto questo non c'è più
e mi sento precipitare in una cella piccola con le sbarre murate in un
silenzio irreale interrotto solo dai rumori metallici dei blindo e dei
carrelli che attraversano i corridoi per dispensare un po' di cibo.
Occupiamo celle affollate che gli altri chiamano camere, abbassiamo lo
sguardo, la voce e ci apprestiamo a vivere una notte per chi vive fuori
da qui vuol dire, a volte, sognare”.