“Non
ho più il fisico dei vent’anni, e talvolta mi scricchiola un po’ la
schiena, ma ancora oggi, con l’ingombro di qualche anno di troppo sulle
spalle oramai un po’ curve, devo dire, narrare, testimoniare, urlando,
queste poche parole, ai tanti giovani che hanno la pazienza, la volontà
ed un po’ di umiltà per ascoltare.”
Giovani e spavaldi, sicuri e baldanzosi nell’immaturità di ogni età,
ignari della vita, alla ricerca di sogni mai esistiti, vanno in gruppo
potenti, nelle risate sguaiate, impasticcati e bevuti di una felicità
non vera, sognando una esistenza perduta. Sono stropicciati, un po’
stanchi, hanno sonno, non trovano lavoro. Hanno vent’anni, a volte
trenta, vanno, si fanno e tornano sempre alla ricerca di quella vita
che non li vuole o non li ha mai voluti. Ma all’origine ci deve essere
qualcosa di indefinito, di sconosciuto, di arcano che attraversa
subdolamente la nostra mente debole e ricettiva, procurandoci delle
scosse violente che ci dispensano sicurezza, superiorità, e anche
profonda sconsideratezza. Vigliacchi ci lasciamo avvolgere, perciò, dal
vessillo della più assurda stupidità e presunzione di onnipotenza che
ci porta quasi sempre a confondere il lecito con l’illecito e con molta
leggerezza, dimentichi dei consigli di quelli che ci vogliono bene,
optiamo per la strada più facile o meglio che ci sembra più facile.
Per orgoglio o spirito di emulazione verso gli amici più grandi, per
voglia di soldi facili e immediati, per fare colpo su qualche ragazza,
o anche solo per fare una bravata in una sera da niente, in una sera
dove solo la noia è la nostra fedele compagna, ci lasciamo tentare dal
fascino dell’avventura proibita, volgiamo essere il protagonista, il
primo attore e come in un film alla televisione entrare sulla
scena del crimine, gioiamo nel sentire l’adrenalina scorrere e pulsare
nelle vene, pronti a scattare, pronti a giocarci la vita in una
sfida stupida e assurda con gli “sbirri” che, informati, nel buio ci
attendono, pronti a fregarci.
Tentiamo sempre di tenerci aggrappati con salda sicurezza alla
convinzione che possiamo smettere in qualsiasi momento, non siamo
ancora “criminine-dipendenti”, purtroppo però questa nostra
certezza non è stata comunicata anche alla nostra debole volontà
e quindi il pensiero “posso smettere quando voglio” rimane solo un mero
pensiero che usiamo come corazza per trovare la forza, la voglia di
sopravvivere e dimostrare a noi stessi, prima che agli altri, che siamo
i più forti.
Ma quasi sempre queste avventure, queste bravate, finiscono più o meno
tragicamente, sicuramente non come avremo voluto, sognato e sperato, e
ci troviamo increduli e spauriti in una cella squallida e scialba,
ancora prima che la sentenza di un processo di condanna.
Si spacca il cielo, urla il mio cuore, inorridisce il pensiero, piange
la terra… bestemmia la vita.
Abituato alla libertà, al cielo intero, al sole caldo, alla pioggia,
alla nebbia delle sere autunnali, ai pianti, ai sorrisi delle persone
che mi passano accanto, all’improvviso tutto questo non c’è più e mi
sento precipitare in una cella piccola con le sbarre murate ed i letti
a castello, in un silenzio irreale interrotto solo dai rumori metallici
e anonimi dei blindo e dei carrelli che attraversano i corridoi
per dispensare un po’ di cibo agli affamati.
Occupiamo celle affollate che gli altri chiamano camere, e nella
tristezza abbassiamo lo sguardo, abbassiamo la voce, abbassiamo la
vita, e ci consegniamo ad un’altra notte che, per chi dorme, fuori da
qui, forse vuol dire sognare, per noi invece, che inchiodati dalla
disperazione rimaniamo svegli, macerarsi nell’angoscia e nel tormento
cercando un nascondiglio, un rifugio dove poter leggere lo sgomento
dell’anima.
C’è il silenzio della noia attorno a me, e pur con la finestra aperta,
manca l’aria, l’ossigeno, la voglia, l’entusiamo, la forza. L’ozio è
difficile da sopportare,i ricordi, quando riusciamo a trovarli, sono
pesanti fardelli, ma ci tengono ancorati a questo qualcosa che gli
altri chiamano vita.
L’assurdo è l’unico protagonista dei silenzi notturni, delle giornate
vuote, delle speranze cancellate, della rabbia, del rancore e di questa
esistenza sballata. Siamo rinchiusi clandestini di una vita sbagliata,
siamo ombre ingombranti, ombre pesanti, come pacchi, posati, stivati,
spostati. Siamo sempre osservati a distanza, nessuno ci chiede,
nessuno ci domanda, nessuno s’informa, siamo in tanti ma non c’è
allegria, non c’è festa, ognuno resta solo con il suo silenzio.
Siamo prigionieri in cortile, circondato da cemento, nel cemento, a
girare intorno, come fiere braccate, per quell’ora d’aria che ci viene
regalata. Qua, tra rabbia, disperazione, odio e rancore, anche i
sogni diventano aceto, e la noia mortifica gli occhi, un po’ per
non guardarci, un po’ per non essere visti.
Consumiamo il tempo che passa inutilmente, bruciando sterili ore,
ingabbiati, fumiamo e dormiamo, dormiamo fumiamo. Questo soggiorno
obbligato in una gabbia che non è ancora dorata solo l’ozio e il nulla
ci appartengono.
Stanchi arriviamo a sera, per un vagare incessante, in questa esistenza
spenta, alla ricerca di un qualcosa che ci dia la forza per
sopravvivere un altro giorno ancora, allo sconforto, all’ansia,
all’angoscia, alla tristezza, al dolore, a questa non vita. Non ci sono
più stelle, per noi nel cielo nero della notte, anche se talvolta
vediamo la luna ballare il tango. Non c’è più speranza, non c’è domani,
con il terrore di perdere anche gli affetti, l’amore, mentre l’amicizia
se ne già andata.
Consumiamo i giorni, le notti, il tempo nel grigiore opaco di una vita
che stupidamente si è sbriciolata tra le dita, i una sera qualunque di
insensata incoscienza per vincere una partita che alla fine non ci vede
mai vincitori. Ne valeva la pena?
Per un attimo di esaltazione, per pochi spiccioli di grandezza, per un
orgoglio mal posto, per una sensazione di potere, ridicola, per
sentirci qualcuno, ora sono qui, in mezzo ad altri ma sempre solo con
la mia disperazione ed il rimorso che mi tormenta.
Vorrei essere libero, vorrei non aver mai giocato questa partita.
Vorrei avere più tempo, più luce più spazio, più sorrisi e non
immalinconire alle prime ombre della sera, rimpiangendo di aver buttato
un altro giorno di questa vita che inesorabilmente passa e mai ritorna.
Vorrei ancora vedere la festa di un tramonto infuocato sopra i monti
lontani.
Vorrei fottere l’angoscia, la malinconia, la noia, vorrei tornare
indietro nel tempo, e assieme a quelli come me, cantare quello che ci
resta, lacrime e graffi nella voce, e smettere di giocarci ogni giorno
la vita a dadi e l’indomani a tre sette.
Corrono i ricordi, volevo essere di più e prima un uomo, per giocarmi
meglio questi anni ballerini, prendere, fare, andare, tornare, avere
niente e poi magari avere tutto. Vorrei non avere più paure, per questo
e per quello, per lui o per l’altro, cacciarle, eliminarle.
Ed oggi, per riprendermi questa vita che mi appartiene, vorrei il suono
di una tromba in fondo al cuore, per assaporare, di nuovo quanto di
straordinario ci possa essere in un’ora di vita, spesa per bene, senza
ansia, senza fughe, senza paure, magari con la testa all’insù e
guardare ancora il cielo tutto intero.
Brutas