Roberto
Scarpinato
Procuratore Generale di Caltanissetta
“Per una giustizia e un’etica
planetarie: nella memoria viva dei 20 anni di padre Ernesto Balducci;
di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; delle altre vittime delle
stragi di Capaci e via d’Amelio e di tutte le vittime delle mafie”
Come ha ricordato Pierluigi, questo è il terzo anno di seguito che il
Centro Balducci mi invita a partecipare alla sua manifestazione e per
me questi incontri sono diventati un’occasione per condividere con voi
gli interrogativi e le impressioni sul tema di Dio e sul senso della
vita, della morte, sulla possibilità di creare un mondo più giusto,
interrogativi che mi hanno accompagnato e mi hanno travagliato nel
corso della mia lunga esperienza di magistrato antimafia.
Ho trascorso gli ultimi venticinque anni della mia vita a Palermo, una
città che, nell’immaginario collettivo, è percepita più come un luogo
simbolo che trascende la dimensione puramente geografica, come la
capitale della mafia, come la patria elettiva degli assassini, come
epicentro di un impero del male contro cui nel tempo si sono schierati,
venendone inesorabilmente travolti, alcuni solitari paladini del bene
di cui si onora la memoria.
Eppure questo luogo simbolo, oltre a essere stato uno degli epicentri
dell’impero del male, è stato per me una delle più importanti fucine di
formazione etica di questa nazione. Un luogo nel quale intere
generazioni sono state costrette a misurarsi con i grandi temi della
vita. Proverò a spiegare il senso di questa contraddizione.
Vedete, a Palermo la protagonista occulta della vita cittadina è stata
la morte. Quasi non vi è strada, non vi è crocevia, non vi è piazza
dove non sia stato consumato un omicidio, un assassinio, una strage. La
città è disseminata di lapidi e di targhe che ricordano che qui è stato
ucciso un magistrato con la sua scorta, qui un prefetto, qui un
poliziotto, qui una persona che ha avuto il coraggio di testimoniare in
un processo di mafia, qui un prete e via di seguito con una triste
contabilità della morte che quasi non ha fine. Ma anche dove mancano
lapidi e targhe, la memoria collettiva degli abitanti dei luoghi
conserva tracce indelebili di sparatorie, di corpi crivellati,
squarciati dall’esplosivo, di donne piangenti dinnanzi e cadaveri, di
volti attoniti e smarriti.
L’anno scorre tra la partecipazione a una messa in ricordo delle
vittime e un’altra, una continua commemorazione che si snoda quasi
senza interruzione di continuità. Ma la morte è stata protagonista
della vita cittadina non solo per i tanti lutti del passato, ma anche
perché ha abitato continuamente, e spesso segretamente, la mente e il
cuore dei vivi come una minaccia costante. Mi riferisco a coloro che
sono rimasti in vita e che tuttavia per anni, per decenni hanno dovuto
convivere col pensiero della propria morte, temendo di essere uccisi
perché avevano osato ribellarsi alla mafia. Mi riferisco ai tanti che,
invece, hanno ceduto alle richieste della mafia e che talora ne sono
divenuti complici e che prima di addivenire a questo passo hanno
immaginato la propria morte, se non fossero stati arrendevoli, ed hanno
rivisto nella propria mente mille volte il film della morte di altri
che erano stati più coraggiosi e più onesti di loro. Mi riferisco agli
stessi assassini, ai somministratori di morte che convivono
quotidianamente con la consapevolezza di poter essere uccisi a loro
volta, spesso – come mi hanno confessato – con il ricordo dell’ultimo
sguardo delle loro vittime.
Vedete, coloro che sono costretti a misurarsi continuamente con
l’esperienza della morte sono costretti anche a interrogarsi
continuamente sui grandi temi della vita e dell’etica: da che cosa
origina il male? Esiste una possibilità di giustizia sulla terra, una
giustizia uguale per potenti e impotenti? È possibile una giustizia
giusta in una società ingiusta oppure esiste una contraddizione
sistematica tra l’una e l’altra? Che senso ha la vita? Che senso ha la
vita, se la realtà, che sembra riprodursi sempre uguale a se stessa, è
sempre più ridotta ad una competizione senza esclusione di colpi che
premia i più forti, i più furbi – siano essi politici corrotti, siano
“colletti bianchi” della mafia, siano imprenditori, affaristi
spregiudicati –, mentre i fragili, gli impotenti, gli ultimi scivolano
sempre più in giù nella scala sociale? Ha senso morire, sacrificare la
propria vita per opporsi a questo stato delle cose, per cambiare la
realtà? E in tutto questo dov’è Dio? E se Dio esiste, qual è il volto
di Dio? E come è possibile – come mi è accaduto di dover constatare –
che vittime e carnefici, sfruttatori e sfruttati, corrotti e onesti
siano spesso tutti cattolici, preghino lo stesso Dio e, cosa
straordinaria, si sentano tutti in pace con se stessi?
Ho conosciuto killer e mandanti di omicidi i quali mi hanno rivelato
che dopo ogni omicidio si recavano in chiesa per chiedere perdono a
Dio, pronti per il successivo delitto. Ne ho conosciuti altri che mi
hanno confessato che si recavano sulle tombe di coloro che erano stati
costretti ad abbattere. Il moro motto è: “Dio sa che sono loro che
hanno voluto farsi uccidere perché non hanno voluto ascoltare i
consigli degli amici”.
E perché meravigliarsi dei mafiosi? Non è forse vero che il mondo è
pieno di assassini ben più feroci di Riina, di Provenzano, dei mafiosi…
che si sono resi responsabili di genocidi, di massacri, come i
cattolicissimi dittatori latinoamericani, i quali si sono sempre
professati buoni cristiani? In tale convinzione sono stati confortati
da vescovi, alti prelati che hanno mangiato alle loro mense e che li
hanno benedetti sul letto di morte come salvatori della patria.
Ecco, su tutto questo e su molto altro ci si interroga continuamente a
Palermo dinnanzi alla tragica e perenne realtà della morte che esige e
sollecita risposte ineludibili, senza le quali il senso di tutto sembra
implodere, lasciando un deserto di senso. Si tratta di domande che
invece sono da molto tempo escluse dall’orizzonte problematico della
cultura postmoderna, una cultura che infantilizza gli esseri umani
perché li imprigiona in un eterno presente nel quale l’unico scopo
della vita sembra essere il consumo illimitato di beni superflui e il
successo personale comunque conseguito, mentre il futuro si riduce alla
riproduzione del presente e della promessa di una crescita economica
illimitata. Sentiamo sempre parlare come unico orizzonte della crescita
e cioè la produzione di montagne di beni superflui con i quali riempire
vite svuotate di senso che non si possono più riempire di senso.
Palermo, dunque, è stata ed è un laboratorio di etica perché in questo
luogo si continuano a porre domande radicali e anche perché si coltiva
il “vizio” della memoria. Vedete, a Palermo siamo costretti, siamo
condannati a ricordare. Il passato lì è come un film che viene rivisto
mille volte nella moviola della memoria e continuamente interrogato,
rielaborato, indagato alla ricerca di risposte a domande di senso che
restano come sempre eternamente sospese. Lo interrogano i magistrati
alla ricerca dei colpevoli, ma lo interrogano anche gli storici, perché
la Storia, la Storia nazionale, quella con la s maiuscola è sempre
passata da Palermo e dalla Sicilia. Dall’unità d’Italia ad oggi nessuno
– destra, centro, sinistra – è riuscito a governare questo Paese senza
venire a patti con la borghesia mafiosa, un potentissimo blocco sociale
che aggrega attorno ai propri interessi quote imponenti di consenso
elettorale che è sempre stato in grado di condizionare gli equilibri
politici nazionali. La Storia è passata da Palermo perché molte stragi
e omicidi politici eccellenti hanno avuto motivazioni politiche,
mandanti politici all’interno di quello che Giovanni Falcone chiamava
il “gioco grande”, cioè il gioco grande del potere.
Il passato a Palermo viene continuamente interrogato anche dai parenti
delle vittime nello sforzo di elaborare un lutto che non si stanca mai
di chiedere perché e viene interrogato anche dai tanti che in un modo o
nell’altro sono stati coinvolti in eventi tragici e che non cessano di
chiedere a se stessi se avrebbero potuto fare qualche cosa per evitare
quegli eventi e se per caso quegli eventi tragici non siano destinati a
ripetersi come se vivessimo all’interno di una tragedia inceppata che
si ripete sempre uguale a se stessa.
Palermo, dunque, è il luogo in cui si coltiva il vizio della memoria
che è una componente essenziale dell’etica. Se ciò che è stato vissuto,
se il dolore patito, se il sacrificio degli onesti viene dimenticato, è
come se non fosse mai accaduto, quindi viene privato di senso. La
memoria sfida la morte perché sottrae la vita vissuta e meritevole di
essere ricordata al non senso dell’oblio. La memoria è anche un
ingrediente essenziale della giustizia perché sino a quando i fatti non
sono dimenticati essi sono come un indice puntato nei confronti degli
assassini.
Come ha giustamente scritto lo scrittore Milan Kundera: “La lotta
contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”. E non è un
caso che i dittatori hanno sempre avuto paura della memoria. Il
dittatore latinoamericano argentino Videla soleva ripetere: “La memoria
è sovversiva”. In questo senso Palermo è una città di memoria
sovversiva perché tiene in vita la domanda di verità e giustizia nei
confronti di una criminalità del potere che ha sempre offerto
protezione e impunità alla mafia perché della mafia si è servita per
fini di potere e di accumulazione di ricchezze.
Palermo è un luogo etico anche perché ti costringe a scegliere tra il
bene e il male e a conoscere te stesso. Vedete, in altri luoghi più
fortunati la differenza tra il bene e il male, tra il bianco e il nero
sembra a volte sfumare tra i mille toni grigi intermedi che ci sono tra
il bianco e il nero. Altrove la vita scorre normalmente senza che quasi
mai un uomo o una donna siano costretti a fare scelte drammatiche, di
vita o di morte, scelte dinnanzi alle quali un uomo è messo a dura
prova dinnanzi a se stesso e agli altri, è costretto a guardarsi allo
specchio, a conoscersi per quello che veramente è senza maschere. Così
a volte si trascorre un’intera esistenza nella quale ciascuno può
raccontarsi a se stesso e agli altri più come vorrebbe essere che come
è. A volte si muore senza neppure sapere chi si è, senza conoscersi.
A Palermo, invece, non è possibile bleffare con se stessi perché prima
o poi la dura realtà ti afferra per il bavero e ti costringe a fare
scelte di vita o di morte e a quel punto sei costretto a rivelarti a te
stesso per quello che sei. Se per esempio sei un commerciante, prima o
poi ti vengono a chiedere il pizzo o tentano di coinvolgerti in affari
sporchi. E allora devi scegliere: se pagare e diventare uno schiavo
come complice della mafia oppure se ribellarti, denunciare i fatti e
rischiare di essere ucciso, come è accaduto all’imprenditore Libero
Grassi.
Se sei un sacerdote, devi scegliere: se limitarti a essere – come
diceva Ernesto Balducci – un “burocrate di Dio”, se limitarti a dire
messa a domenica, a fare prediche improntate a un astratto amore per il
prossimo, al valore della famiglia, a una carità che spesso si riduce a
una comoda cultura dall’elemosina che ti mette a posto la coscienza con
pochi spiccioli; oppure, così come fece padre Puglisi, uscire fuori dal
recinto protetto della parrocchia, immergerti nella difficile realtà
del quartiere, testimoniare concretamente i valori evangelici tentando
di strappare i ragazzi a un destino di mafia, prendere posizione contro
la prepotenza esercitata sugli ultimi e per questo essere ucciso, com’è
successo a padre Puglisi.
Se sei un giornalista, puoi limitarti a scrivere articoli nei quali fai
un asettico resoconto delle vicende criminali, andando a ruota nelle
indagini dei magistrati e dei poliziotti, oppure puoi fare giornalismo
investigativo sul territorio, portando alla luce storie di
sopraffazione, di malaffare che sfuggono ancora alla cognizione dei
magistrati e per questo motivo essere ucciso, così come è accaduto a
tanti giornalisti come Mauro De Mauro, come Giuseppe Fava, come Mario
Francese, come Giuseppe Alfano e come tanti altri.
Se sei un medico e ti chiedono una consulenza medica compiacente per
far uscire un boss dal carcere o per scagionarlo da un delitto, puoi
aderire a quella richiesta oppure rifiutarti e venire ucciso, come
accadde al dottor Paolo Giaccone, medico legale di Palermo che fu
assassinato nel 1982 perché si era rifiutato di aderire alla richiesta
di falsificare una perizia per evitare la condanna all’ergastolo di un
mafioso.
Anche se sei un normalissimo cittadino devi fare delle scelte
drammatiche. Ti accade di assistere a un delitto e puoi scegliere: ti
volti dall’altra parte, e hai fatto finta di non vedere, oppure vai a
testimoniare in processo e ti uccidono, come è successo a tanti altri,
oppure ti rassegni a trascorrere una vita blindata. E potrei continuare
a lungo con questi esempi.
Palermo, dunque, è il luogo delle scelte radicali nel bene e nel male e
poiché, come diceva il filosofo francese Jean Froissart, “l’etica
consiste nello scegliere e noi siamo le nostre scelte”, per questo
motivo, anche per questo motivo, Palermo è un luogo etico o, se
preferite, un laboratorio permanente di etica. Per tutti questi motivi
in questo luogo ho conosciuto dunque tante persone straordinarie, veri
e propri maestri di etica che hanno fatto di me, nel bene e nel male,
quello che sono. Tra poco vi parlerò di Giovanni Falcone e di Paolo
Borsellino, ma vorrei che voi consideraste Falcone e Borsellino non
solo nella loro straordinaria individualità, ma anche come figure di
sintesi, come simboli di una lunghissima teoria di uomini e donne
straordinarie molti dei quali non sono noti al grande pubblico, alcuni
sono stati dimenticati, altri sono sempre rimasti sconosciuti. Non mi
riferisco soltanto a magistrati, poliziotti, a persone variamente
impegnate nel sociale, ma anche a comuni cittadini.
Ho conosciuto uomini e donne che sono stati improvvisamente strappati
alla loro vita normale e sono stati proiettati dentro storie
drammatiche molto più grandi di loro. Essi hanno dovuto affrontare la
paura, hanno dovuto sollevarsi al di sopra della propria fragile
umanità e reggere sulle proprie spalle il peso di decisioni che poi li
hanno segnati per tutta la vita. Ho visto persone piangere per la
paura, nascondersi il viso tra le mani e gridare: “Non potete chiedermi
questo!”; altre che, scuotendo la testa, ripetevano quasi come in una
cantilena: “Devo pensare ai miei figli”. Ne ho viste altre ancora che
si raccoglievano in silenzio in se stesse per minuti come per trovare,
alle radici della propria anima, la forza interiore che era necessaria,
come per prendere la rincorsa e superare, come di un balzo, il confine
che separa la vita normale da una vita ignota. Alcuni di loro non ce
l’hanno fatta, si sono spezzati dentro. Qualcuno si è suicidato. Come
Rita Atria.
Rita era una giovane donna il cui padre e fratello erano due mafiosi
che erano stati assassinati da altri mafiosi. All’età di diciassette
anni Rita decise di raccontare a Paolo Borsellino tutte le confidenze
sui fatti di mafia che aveva appreso dal fratello, diventando così una
collaboratrice di giustizia che venne messa sotto protezione in una
località segreta. A causa di questa sua decisione venne ripudiata dalla
sua famiglia e dalla madre che, pure dopo la sua morte, si recò sulla
tomba della figlia per sfregiare la lapide in segno di disprezzo. Rita
Atria aveva deciso di affidarsi a Paolo Borsellino perché in lui, nella
sua straordinaria umanità, non vedeva soltanto un magistrato, ma quasi
un padre, il simbolo si uno Stato paterno che mette la sua forza
tranquilla a protezione e a difesa dei fragili in un mondo di
ingiustizia e prepotenza.
Quando il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino venne assassinato, Rita si
sentì perduta e sola al mondo. Nel suo diario, trovato dopo la morte,
scrisse queste parole: “Prima di combattere la mafia, devi farti un
autoesame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di
te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia
siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei
morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”. Una
settimana dopo la strage di via d’Amelio, Rita Atria si uccise a Roma,
dove viveva in segreto, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di
viale Amelia.
Queste altre vicende mi hanno molto travagliato. Mi sono talora chiesto
se era giusto che noi magistrati chiedessimo a persone fragili di darsi
la forza che non avevano, di reggere sulle spalle un peso che non erano
in grado di reggere. Mi sono chiesto se lo Stato, in casi come questi,
debba solo presentarsi con il volto dei magistrati che raccolgono
testimonianze, di poliziotti che danno protezione. Tutto questo prende
in considerazione solo i rapporti formali, la protezione esterna, ma
c’è necessità anche di una protezione interiore, di un sostegno umano,
psicologico, direi paterno. Il compito delle istituzioni e degli uomini
che hanno scelto di lavorare nelle istituzioni dovrebbe essere anche
quello di farsi carico della fragilità degli altri, di tendere una
mano, di essere i rappresentanti di uno Stato credibile che si incarica
di essere la forza di tutti e che fa sentire il singolo parte di un
collettivo che ti accoglie e ti protegge contro la forza straripante
del male.
Forse la legge, oltre che garantire ordine e stabilità sociale, oltre
che essere strumento per risolvere i conflitti, dovrebbe anche
garantire il diritto alla fragilità, un diritto sacrosanto. Coloro che
più hanno bisogno della legge sono soprattutto i fragili, i deboli,
perché i forti, i potenti, le leggi spesso se le fanno da sé. In un
mondo in cui l’unica legge sembra essere quella della competizione, in
una sorta di selezione darwiniana, i fragili senza la protezione delle
leggi dello Stato sono destinati a soccombere, oppure a convertirsi al
cinismo, all’arrivismo senza avere il tempo di fare maturare dentro di
sé e fare evolvere una forza tranquilla.
Garantire il diritto alla fragilità, garantire spazi di protezione e di
libertà ai fragili io credo che sia anche un valore di “ecologia
sociale”. Non è forse vero che la fragilità è anche una straordinaria
riserva di umanità? Non è forse vero che tra i nostri fratelli fragili
si incontrano spesso i migliori tra di noi, le persone più sensibili,
quelle che rifiutano la logica della competizione, conservano intatta
anche per noi quella riserva di umanità alla quale, in momenti in cui
la vita cessa di aiutarti, sentiamo il bisogno inconsapevole di
attingere? In quei momenti anche i forti hanno bisogno dei fragili,
anzi hanno soprattutto bisogno di loro, della loro riserva di umanità
speciale e incontaminata.
Non basterebbe un giorno intero per raccontare le mille storie di tante
altre persone normali, di eroi sconosciuti, tutti maestri di etica per
me, che sono come le stelle di un lungo martirologio, di cui Falcone e
Borsellino sono il simbolo riassuntivo e le icone collettive. Io ho
avuto l’onore di conoscere entrambi Falcone e Borsellino e di lavorare
con loro. Loro sono conosciuti in tutto il mondo soprattutto come due
esempi straordinari di uomini di Stato, come magistrati che, fondando
il pool antimafia, diedero avvio alla riscossa dello Stato nei
confronti della mafia culminata nelle condanne inflitte con il
maxiprocesso. E tuttavia stasera io non vi parlerò dei loro meriti di
magistrati, che vi sono certamente noti, perché i loro meriti e il
valore della loro testimonianza umana vanno molto al di là dei loro
ruoli professionali di magistrati. Essi sono stati dei grandi
costruttori, dei grandi creatori di senso.
Vedete, nel Sud e in molte altre parti d’Italia per tanto tempo parole
come Stato, come legalità, come giustizia sono state parole prive di
senso. Parole usurate da una bolsa retorica a cui non corrispondeva
alcuna reale sostanza. La gente non credeva nello Stato, non credeva
nella giustizia. Per troppi secoli la legge, come scriveva Gaetano
Salvemini, era stata la voce del padrone e lo Stato soltanto il simbolo
di un potere forte con i deboli e debole con i forti. E anche dopo
l’avvento della democrazia e della costituzione antifascista del 1948
in molte parti del paese, nel Sud, in particolare in Sicilia, lo Stato
continuava a non apparire credibile perché veniva identificato con la
classe politica che ne occupava le postazioni istituzionali. Lo Stato
si presentava agli occhi della gente con i volti impresentabili di
deputati, senatori, ministri, talora presidenti del Consiglio e tanti
altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie
alla mafia avevano costruito carriere politiche e avevano accumulato
ricchezze.
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone sapevano bene che questo era il
problema dei problemi. Falcone, a volte, negli anni ’80, nel constatare
che la società civile disertava i funerali dei magistrati uccisi dalla
mafia, commentava amaramente che talora gli sembrava che la gente
assistesse alla lotta alla mafia come il pubblico sugli spalti assiste
ad un corrida: taluni tifavano per il torero, altri per il toro, ma
tutti comunque erano spettatori passivi. Paolo Borsellino, parlando ai
ragazzi nelle scuole, non si stancava di ripetere frasi come quella che
disse il 26 gennaio dell’‘89 agli studenti di Bassano del Grappa. Disse
Borsellino: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita. Che cosa si
è fatto per dare allo Stato un’immagine credibile? La vera soluzione
sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile
perché noi ci dobbiamo identificare di più in questa istituzione”.
E proprio perché erano consapevoli che il vero problema era restituire
credibilità allo Stato, Falcone e Borsellino hanno dedicato tutta la
loro vita a quest’impresa e sono riusciti – io credo – in un’impresa
storica: quella di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a loro
e a uomini come loro per la prima volta nella storia di questo paese lo
Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti
credibili nei quali era possibile identificarsi e acquistava senso la
frase: “Lo Stato siamo noi”.
Falcone e Borsellino sono stati creatori di senso perché hanno
strappato la gente alla cupa rassegnazione all’esistente, al senso di
impotenza individuale e collettivo di fronte al prevalere della legge
del più forte e del più furbo, ad un senso di orfanezza istituzionale
per uno Stato che appariva assente o poco credibile. Essi sono divenuti
promotori e organizzatori della speranza per creare un mondo senza
mafia e senza prepotenze, perché l’essenza ultima della mafia è quella
di essere prepotenza organizzata. Grazie al loro esempio e alla
ritrovata credibilità dello Stato, della legge, finalmente riacquistava
senso parlare di futuro e di libertà. Ma è proprio questo aspetto e
questo risultato del loro impegno che li ha resi pericolosi dinnanzi al
potere.
Vedete, i poteri criminali hanno bisogno di uno Stato debole perché
privo di credibilità e di sostegno popolare. Il potere alimenta la
cultura della rassegnazione fatalistica all’esistente, inducendo la
gente a ritenere che in fondo siamo tutti uguali e che non c’è nessuno
in cui potersi identificare veramente, di cui potersi fidare. Il
messaggio del potere è: “Fatti gli affari tuoi, pensa alla famiglia
perché tanto non c’è nessuno a cui credere”. Ciascuno così è indotto a
ripiegare in se stesso, la potenza virtuale del collettivo è
frammentata nell’impotenza dei singoli.
La reazione contro Falcone e Borsellino iniziò proprio quando il potere
politico ed economico, che costituisce la vera forza della mafia, si
sentì in pericolo. Iniziò quando il pool antimafia, dopo aver
incriminato e arrestato gli uomini della mafia militare, della mafia
popolare, alzò il livello delle indagini arrestando i potentissimi
“colletti bianchi” che appartenevano ai piani alti della piramide
sociale e del potere mafioso e che erano collegati con i vertici della
politica e della finanza. Quando si comprese che il pool antimafia non
si sarebbe fermato, indagine dopo indagine sarebbe arrivato dentro i
santuari del potere, venne scatenata contro Falcone e Borsellino una
violentissima campagna di stampa finalizzata a screditarli, a
delegittimarli, presentandoli all’opinione pubblica come magistrati
ammalati di protagonismo, come comunisti, come pilotati da occulti
centri di potere, come giudici-sceriffi, come Torquemada. Alla fine il
pool antimafia di Palermo venne smobilitato, Falcone fu costretto ad
andare via da Palermo, Borsellino rischiò un procedimento disciplinare
per aver dichiarato alla stampa che stavano distruggendo il pool
antimafia.
Una strategia della delegittimazione e del discredito che è sempre
stata un’arma vincente del potere autoritario e di quello illegale nei
confronti di tutti coloro che, assurgendo a simbolo e speranza di un
altro mondo possibile, mettono in pericolo gli interessi dei potenti.
Anche i sacerdoti del sinedrio, per distruggere la credibilità di Gesù
e per impedire che divenisse il simbolo di un altro mondo possibile,
prima di processarlo e farlo uccidere da Pilato, lo delegittimarono
agli occhi della gente accusandolo di essere un impostore, di abusare
della credulità popolare, di essere un sacrilego. E quando Pilato
chiese alla folla di scegliere tra Gesù e Barabba, gli emissari dei
farisei e dei sacerdoti del tempio si infiltrarono tra la gente e
aizzarono la folla inducendola a scegliere Barabba, un ladro ritenuto
innocuo dal potere piuttosto che Gesù, che rischiava di destabilizzare
un potere fondato sul predominio di pochi su tanti.
Nelle cerimonie ufficiali Falcone e Borsellino vengono commemorati come
eroi che sacrificarono la loro vita per senso del dovere, ma io che li
ho conosciuti so che la loro storia umana è stata molto più importante,
perché essi non si sacrificarono soltanto per senso del dovere. Essi ci
hanno insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a
distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza
gerarchica. Essi erano guidati da una forza molto più grande e quale
fosse questa forza lo ha spiegato lo stesso Paolo Borsellino la sera
del 23 giugno del 1992 quando, un mese dopo la strage di Capaci, ha
commemorato Giovanni Falcone.
Quella sera, parlando di Falcone, Paolo Borsellino disse testualmente:
“Perché non è fuggito? Perché ha accettato questa tremenda situazione?
Perché mai si è turbato? Perché è sempre stato pronto a rispondere a
chiunque della speranza che era in lui? Per amore. La sua vita è stata
un atto di amore verso questa città, verso questa terra che lo ha
generato”.
Ora sappiamo che quella sera, mentre parlava di Giovanni Falcone, Paolo
Borsellino parlava anche di se stesso e ci stava comunicando che se
aveva deciso di stare al suo posto dopo la strage di Capaci, sebbene
fosse consapevole di essere condannato a morte e di avere i giorni
contati, era per amore, perché si sentiva chiamato a rispondere della
speranza che tutti riponevano in lui dopo la morte di Giovanni Falcone.
Vistosi perduto, e nella consapevolezza che doveva misurarsi, come
confidò a sua moglie, con un potere che andava molto al di là della
mafia e contro il quale non aveva difese, due giorni prima di morire
chiamò al Palazzo di Giustizia un sacerdote e si confessò attendendo la
morte.
Uno dei killer mafiosi di padre Puglisi, divenuto collaboratore di
giustizia, ha confessato che ciò che più lo aveva colpito di
quell’omicidio fu che quando padre Puglisi vide i suoi assassini
andargli incontro e si rese conto che stava per essere ucciso, li aveva
guardati con serenità e aveva loro detto: “Vi aspettavo”. Ecco, io
credo che se Paolo Borsellino avesse avuto un attimo di tempo prima che
il suo corpo venisse squarciato dall’esplosivo, e rendendosi conto che
stava per morire, anche lui avrebbe detto, come padre Puglisi: “Vi
aspettavo”.
Per questi e per altri motivi io ritengo che Falcone, Borsellino e
altri come loro possono essere considerati, oltre che come martiri
dello Stato, anche come martiri cristiani. E poco importa se taluni di
loro non erano credenti come lo era invece Borsellino, perché il loro
esempio di vita e il loro sacrificio sono stati comunque una
testimonianza di fede nei valori cristiani di fratellanza molto
superiore a quella di tanti cattolici che si credono buoni cristiani
solo perché frequentano le funzioni religiose, sono obbedienti ai
precetti delle gerarchie religiose e in realtà sono degli atei pratici
perché sono corrotti o sono complici dei mafiosi. Ma essi, Falcone e
Borsellino, possono essere considerati martiri cristiani anche sotto un
altro profilo che chiama in causa la responsabilità del potere nel
creare la sofferenza degli esseri umani.
In uno scritto che ho già citato in altre occasioni il teologo Alberto
Maggi ha detto che Gesù fu ucciso dal potere. Per catturare Gesù fu
scatenata un’operazione di polizia senza pari: vennero impiegati una
coorte romana al comando del procuratore romano e la guarnigione dei
soldati del Tempio di Gerusalemme alle dipendenze del sommo sacerdote
Caifa. La coorte romana era composta da un numero di soldati variabile
da 600 a 1000. La guarnigione israelita era composta da circa 200
uomini. Questi due corpi di polizia e più di mille uomini armati
vengono impiegati per arrestare un solo individuo che non oppone
resistenza.
Ma cosa aveva fatto Gesù per essere considerato un individuo così
pericoloso? La risposta è che Pilato e Caifa, simboli del potere
politico e di quello religioso, avevano validi motivi per considerare
Gesù un pericoloso sovversivo dell’ordine precostituito. Gesù fu
ucciso, dice Maggi, perché il suo insegnamento poneva le basi per una
democratizzazione della società che poteva destabilizzare l’ordine
esistente e il suo programma di liberazione dell’uomo proponeva
un’immagine di Dio che comportava un profondo cambiamento non soltanto
nel rapporto tra l’uomo e Dio, ma anche nel rapporto tra gli uomini,
inaugurando una nuova relazione nella quale veniva esclusa qualsiasi
forma di dominio. Mentre nel Vecchio Testamento Dio era simbolo di
potenza, che pretende obbedienza e sottomissione, Gesù capovolge
l’immagine di Dio che è amore ed è al servizio dell’uomo.
Se dunque Dio non domina, ma serve, nessun uomo può dominare gli altri,
e tanto meno può farlo in nome di Dio. Ciò causa l’allarme negli
ambienti del potere politico e religioso, dove il concetto di libertà
era completamente sconosciuto, e dominio e potere venivano esercitati e
legittimati dalla religione. Gesù, dunque, viene ucciso dal potere
perché simbolo di un ordine alternativo a quello esistente, dunque
destabilizzante per i rapporti di dominio esistenti.
L’alleanza tra Cesare e Caifa, simboli di un potere politico e
religioso, alleati nell’uccidere i semi di libertà e democrazia insiti
nel messaggio evangelico, è rimasta purtroppo una costante nella
storia, riproponendosi sotto svariate forme nei secoli seguenti. Da
quando verso il III sec. d. C. l’imperatore Costantino e i suoi
successori trasformarono il cristianesimo in religione di Stato, il
potere si è sempre appropriato del messaggio cristiano stravolgendone
il senso e utilizzando la religione come strumento per legittimare il
dominio di poche maggioranze sulle masse di sfruttati. Com’è stato
osservato, il più pericoloso nemico del cristianesimo non è stato
l’imperatore Diocleziano, che perseguitava i cristiani e ne faceva dei
martiri, ma l’imperatore Costantino, perché da allora il potere si è
costantemente intromesso nello spazio tra Dio e l’uomo, contaminandolo.
Lo scrittore inglese cattolico Chesterton ha scritto che Dio ha
cominciato a morire nel momento in cui istituzioni antidemocratiche e
illiberali, per meglio rafforzare il loro prestigio e potere, si sono
presentate alla gente sotto il suo nome e per secoli hanno detto: “ Noi
parliamo a nome di Dio. Siamo i suoi servi e i suoi rappresentanti,
dunque ci è dovuta obbedienza, perché obbedendo a noi in realtà
obbedite a lui. Chi ci contesta e ci critica commette peccato di
superbia e di blasfemia”. La lezione della storia offre un ricco e
triste catalogo di dittatori sanguinari che in Europa e in America
latina sono stati definiti come uomini della provvidenza o come
salvatori della patria da parte dei vertici vaticani, nonostante si
fossero resi responsabili di genocidi e di orrendi delitti.
Se, nonostante tutto, la lezione evangelica contro il male oscuro del
potere è giunta sino a noi, lo si deve a tutti coloro che nel corso
della storia, percorrendo talora strade diverse, sono stati accomunati
dall’impegno per umanizzare il potere, per costruire un potere che non
fosse dominio di uomini su uomini, ma fosse al servizio degli uomini.
Su questa strada sono caduti i martiri dell’antimafia di cui abbiamo
parlato, ma anche coloro che sono stati uccisi o ridotti al silenzio da
poteri antidemocratici e antiumani nel mondo, in Europa lottando contro
dittature fasciste, franchiste, naziste, e in Sud America lottando
contro le dittature latinoamericane, all’Est lottando contro lo
stalinismo, la dittatura comunista.
E tra questi martiri un posto di rilievo lo occupano i veri cristiani,
coloro cioè che per restare fedeli all’insegnamento originario di Gesù
si sono schierati dalla parte degli ultimi tentando di spezzare il
perverso rapporto tra fede e potere, e che per questo motivo sono stati
spesso ritenuti dai vertici ecclesiastici vaticani pericolosi e perciò
sono stati emarginati, sono stati condannati alla solitudine e al
silenzio e talora anche sacrificati sull’altare del patto tra Cesare e
Caifa.
Si potrebbe compilare un lungo elenco dei martiri cristiani che sono
stati nello stesso tempo martiri della democrazia, un elenco che
annovera per esempio il cardinale Oscar Romero, assassinato il 24
agosto, e tanti altri sacerdoti esponenti della teologia della
liberazione che furono isolati e abbandonati al loro destino dalle
gerarchie del Vaticano perché avevano osato farsi portavoce della
ragione degli ultimi, i milioni di campesinos sfruttati dai grandi
proprietari latifondisti. I mandanti politici dell’omicidio di Oscar
Romero sapevano bene che egli era un uomo solo, che uccidere quel
vescovo, simbolo di un cristianesimo non addomesticabile dal potere,
non avrebbe determinato, come non determinò, la reazione del Vaticano,
esponendo così il regime dittatoriale al rischio di una grave
delegittimazione politica agli occhi del mondo democratico.
Pensando alla morte di Romero mi sono ritornate in mente le parole che
pronunciò Giovanni Falcone: “Si muore generalmente perché si è soli o
perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché
non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di
sostegno”.
Di tutto ciò padre Ernesto Balducci era pienamente consapevole e non si
stancò mai di denunciare nei suoi interventi e nei suoi scritti le
lunghe compromissioni dei vertici vaticani con il potere e il
tradimento delle speranze alimentate dalla breve primavera del Concilio
Vaticano II. Per questo motivo Ernesto Balducci scrisse: “Non voglio
che si diffonda il cristianesimo che io conosco, voglio che si diffonda
in Vangelo che io medito, che è un’altra cosa”.
Una primavera quella del Concilio Vaticano II che doveva aprire una
nuova pagina di speranza dentro la storia della Chiesa e che invece si
concluse tragicamente proprio con l’omicidio di Romero, con la chiusura
di tutte le cattedre della teologia della liberazione, con la
emarginazione dei sacerdoti come Balducci e con la rivincita della
burocrazia e dei vertici vaticani. Così la storia postconciliare sembra
riconnettersi con assoluta continuità alla storia preconciliare. Alcuni
parlano di “canto del cigno” del cattolicesimo medievale. Sembra di
essere ritornati alla restaurazione di una monarchia assoluta che
concentra tutto il potere all’interno della Chiesa in un ristretto
vertice. Tra questo vertice e il popolo di base non esiste una vera
corrente, una vera osmosi. Vi è una frattura tra questa realtà di base
e i vertici che sembrano divenire sempre più autoreferenziali.
Mi pare a volte che all’interno della Chiesa cattolica si stia
vivendo una vicenda analoga e parallela a quella che travaglia la
storia del potere nella laicità. Si assiste ad una ristrutturazione
oligarchica e verticistica del potere e a una cosciente gestione
mediatica delle masse. Il cattolicesimo sembra perdere sempre più
sostanza spirituale e ridursi a immagine mediatica, a miracolismo, a
sceneggiate televisive sulla vita dei santi, a vari minuti di Vaticano
ogni giorno nelle televisioni private e di Stato.
E allora – e qui concludo – il problema ieri come oggi a me sembra che
resta quello di ricristianizzare il cattolicesimo spezzando il rapporto
perverso tra fede e potere sia dentro la Chiesa che fuori della Chiesa.
Spezzare questo rapporto significa restituire la voce di Dio e di Gesù
agli uomini perché lo spazio tra l’uomo e Dio non continui a essere
sequestrato e contaminato dal potere. Significa ritornare a uno dei
nuclei fondamentali del messaggio di Gesù, al suo monito ai potenti
affinché prendano atto della loro complicità nel creare la sofferenza
degli uomini.
“Solo i poveri sono innocenti”, disse, “solo i miserabili sono senza
peccato, solo chi non appare è senza colpa”. E ai suoi discepoli disse:
“In verità è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago
che un ricco entri nel regno dei cieli”. E nel Vangelo di Luca Gesù
dice: “Voi pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io
vi dico, ma piuttosto divisione”.
Quale divisione? La divisione di chi sceglie e sceglie di stare dalla
parte degli umili e degli oppressi. Una scelta che si traduce in una
carità attiva per la cultura dei diritti e la liberazione dalle catene
del bisogno, una scelta che condannò Gesù a morte e che sempre nel
corso della storia ha condannato a morte chiunque aveva osato
schierarsi contro il potere.
Ripensando a questo insegnamento di Gesù, a volte mi accade di sognare
che – così come in ogni aula di giustizia in Italia è affissa la
scritta: “La legge è uguale per tutti” –, un giorno dinnanzi
all’ingresso di tutte le chiese del mondo venga affissa la stessa
scritta che un grande vescovo brasiliano aveva dipinto sulla facciata
della sua cattedrale ed era: “Il mondo si divide tra oppressori e
oppressi. Tu, cristiano, che stai per entrare, da che parte stai?”
Grazie.