La retorica dei “quattro papi”, due in cielo e due in piazza san
Pietro, ha dominato la rappresentazione mediatica delle canonizzazioni
papali del 27 marzo; ma non si potrebbe capire il significato profondo
di tale evento se si restasse alla superficie della sua spettacolarità
e non si entrasse nel clima di estrema discrezione e intensità che papa
Francesco ancora una volta ha saputo creare nella piazza, e di cui è
stata espressione la essenzialissima e scarna omelia da lui pronunciata
al Vangelo.
Ciò ha fatto della canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo
II non la celebrazione trionfale di due nuovi eroi della fede, portati
agli onori degli altari perché ne traesse più lustro la Chiesa, ma un
atto fondativo di una Chiesa capace di entrare nella sofferenza del
mondo e chiamata a rinnovarsi nel capo e nelle membra.
Papa Francesco ha individuato infatti nelle piaghe del Cristo, che sono
anche le piaghe del mondo, la matrice e il contesto di questa
abbondante santità che è scaturita dal soglio pontificio; e ha
ricondotto a un’unica origine sia la testimonianza di papa Giovanni,
sia quella di papa Wojtyla che le è seguita, sia la travagliata storia
della Chiesa degli ultimi cinquant’anni, sia quel riunirsi a Roma di un
milione di persone per celebrare i due papi, sia il compito assegnato
al suo stesso pontificato: e quest’ unica origine è la docilità allo
Spirito Santo in forza della quale Giovanni XXIII ha convocato il
Concilio.
Nel convocare il Concilio papa Giovanni non si è messo infatti alla
guida della Chiesa come un pastore conduce il gregge ma, secondo
Francesco, “si è lasciato condurre”, ed è stato per la Chiesa “una
guida guidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande
servizio alla Chiesa; per questo – ha aggiunto Francesco – a me piace
pensarlo come il papa della docilità allo Spirito Santo”. Qui
naturalmente c’è l’elogio della virtù personale di Angelo Roncalli, ma
riguardo alla Chiesa questo vuol dire una cosa sola: che il Concilio è
stato convocato dallo Spirito Santo, che il Concilio è stato, ed ancora
è, per quanto ne seguirà nella Chiesa, opera di Dio.
Questa affermazione è risuonata nella liturgia di piazza san Pietro,
coinvolgendo quattro papi, due in cielo e due in terra, un milione di
fedeli e non fedeli lì presenti e l’intera Chiesa cattolica idealmente
quella mattina unita a quella piazza. Ed è un’affermazione bruciante e
dirimente se si pensa che qualche scheggia di vecchia Chiesa scismatica
aveva definito il Concilio “la peggiore sciagura occorsa alla Chiesa
nei suoi duemila anni di storia”, e se si pensa che anche la Chiesa
fedele, anche la Chiesa costituita in autorità, si era fatta intimidire
da quell’anatema, era stata titubante e incerta nella ricezione ed
attuazione del Concilio e infine l’aveva indebolito e snervato
negandolo come “evento” e infilandolo nel conflitto delle
interpretazioni, delle “ermeneutiche” di continuità o di rottura.
Ma perché lo Spirito Santo, servendosi della docilità di san Giovanni
XXIII, ha voluto il Concilio? Per condannare qualche errore, per
dirimere qualche disputa, per ribadire vecchie formule di scontate
dottrine? No, questo lo aveva già escluso papa Giovanni nel suo
discorso di inaugurazione del Vaticano II l’11 ottobre 1962: per questo
non c’era bisogno di un Concilio. Il compito era ben più impegnativo,
aveva una portata epocale. Ciò che lo Spirito Santo voleva, chiedendo
la collaborazione dei papi era – ha detto papa Francesco –
“ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia
originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei
secoli”.
Ripristinare vuol dire che se ne era allontanata; e allora il Concilio
doveva riconoscere e correggere ciò che si era sbagliato; e appunto lo
ha fatto: basti pensare alla ritrovata dottrina sulla libertà, alla
tesi lasciata cadere che non c’è salvezza fuori della Chiesa romana
visibile, al superamento dell’antropologia che faceva dell’uomo caduto
un reietto da Dio e di Dio un creatore che aveva revocato i suoi doni
originari. E aggiornare vuol dire rimuovere e riformare, liberarsi
delle cose vecchie e fare le cose nuove; e appunto il Concilio ha
intrapreso a farle, a cominciare dalla liturgia e dalle sue lingue,
dall’ecumenismo, dalla sinodalità, anche se ancora con primissimi
passi.
Dunque con le canonizzazioni del 27 marzo la Chiesa è stata portata a
ricongiungersi direttamente alla Chiesa di papa Giovanni e del
Concilio. E ciò non può che dare adito a nuove speranze non solo per la
Chiesa ma anche per l’umanità di domani.
Nell’aprire il Concilio papa Giovanni aveva spinto lo sguardo anche
oltre la Chiesa, e aveva detto che la Provvidenza ci stava conducendo a
un nuovo ordine di rapporti umani, che per opera degli uomini e per lo
più al di là delle loro aspettative, si andava volgendo verso il
compimento di disegni superiori e inattesi. Non si sa da dove papa
Giovanni ricavasse questa visione così promettente del futuro, ma se
anch’essa nasceva da un impulso dello Spirito, certo non poteva
trattarsi di un ottimismo di maniera. Poi ce ne siamo dimenticati e il
mondo e la Chiesa sono caduti nella più profonda afflizione, e anzi si
è andato affermando nella nostra cultura, così come nella politica e
nell’economia, un cupo pessimismo antropologico, come se non ci fosse
niente da fare per risanare la storia. Ma se oggi si riprende quel
cammino iniziato cinquant’anni fa, torna ad affacciarsi quella prognosi
o, se si vuole, quella profezia.
Papa Francesco si ricollega ad essa facendo un enorme investimento su
Dio e sull’uomo: su Dio in quanto tutto misericordia e perdono, e
sull’umanità in quanto viene chiamata a mettere in campo la
straordinaria risorsa che è stata finora inutilizzata e nascosta, e
cioè la risorsa dei poveri.
È così che il privilegio dei poveri sale sul trono di Pietro, non per
una scelta politica del papa, ma per una scelta preferenziale che prima
di tutti, come dice la “Evangelii Gaudium”, è fatta da Dio.
E se i poveri sono chiamati ad essere protagonisti di storia, allora la
storia può prendere un’altra strada.
È su questa scelta teologica ed antropologica che si innesta la novità
portata da papa Francesco che mentre da un lato rinnova l’annuncio di
fede, dall’altro chiama in causa le culture del mondo, le culture
popolari, e mette all’ordine del giorno un cambiamento del sistema dei
rapporti sociali. Egli ha avuto il coraggio di delegittimare l’intero
sistema economico mondiale definendolo come “un’economia che uccide” e
denunciandolo come un sistema che esclude grandi masse di uomini e di
donne trattandoli come avanzi e come scarti.
Se il cristianesimo non è un gingillo per anime pie una tale analisi e
un tale impegno di cambiamento che fossero davvero fatti propri dalla
Chiesa non potrebbero che avere enormi conseguenze nella vita pubblica.
Come ciò potrà essere tradotto in azioni politiche e storiche, come
potrà passare nella realtà concreta delle dinamiche umane, culturali e
politiche, non sappiamo. Non ve ne è un programma già tracciato. Ma
proprio questo è il compito delle generazioni che oggi si affacciano
alla vita, ed è il compito non solo dei cattolici o dei cristiani, ma
di tutti gli uomini. È solo dallo sforzo congiunto di tutti infatti che
potrà venire quel nuovo ordine di rapporti umani che il Concilio ha
preconizzato e che natura e storia attendono gemendo nelle doglie del
parto.
Raniero La Valle