Lettera di Natale 2016
Restare umani... oltre le paure
Presentata il 21 dicembre 2016 al Centro Balducci
La lettera di Natale 2016 per
condividere esperienze, riflessioni, interrogativi, stanchezze,
delusioni, speranze; per ridire la possibilità della fede in Gesù di
Nazareth come orientamento di fondo della vita vissuta nelle comunità e
oltre ad esse.
LE RELAZIONI UMANE
La dimensione e l’esperienza che continuiamo a vivere e a sentire come
fondamentali sono le relazioni con le persone: l’attenzione, l’ascolto,
la condivisione, la reciprocità.
Complessità, disponibilità, dolori, speranze di tante storie ci
coinvolgono, ci addolorano, ci comunicano profondità e ricchezze; ci
danno la forza interiore di riprenderci e di continuare perché in
questo intreccio di relazioni percepiamo la presenza di Colui che ci ha
proposto di riconoscerlo nelle persone, soprattutto in quelle che
esprimono fragilità, debolezze, ferite, senso di esclusione e di
abbandono.
Solo riconoscendo le nostre fragilità, debolezze, stanchezze possiamo
incontrare in modo veritiero quelle altrui che favoriscono in noi la
verità profonda su noi stessi. Questa costante esperienza quotidiana è
collocata nella storia delle nostre comunità locali dalle quali, a
cerchi concentrici che si dilatano, si apre la dimensione planetaria di
un’umanità e di un ecosistema sempre più interdipendenti.
ALCUNE GRANDI QUESTIONI CHE CI PROVOCANO E CI INTERPELLANO
I migranti
Gli incontri, i dati, le nostre esperienze dirette, le riflessioni ci
portano a considerare il fenomeno dei migranti non rilevante fra gli
altri, bensì quello dirimente; la chiave di lettura interpretativa
dell’attuale storia dell’umanità.
- Il fenomeno migratorio che ha sempre caratterizzato la storia,
oggi ha assunto una caratteristica planetaria a partire dalla
constatazione dei 65 milioni di persone, tanti i minori, che sono in
cammino forzato sul Pianeta.
- I migranti ci rivelano le situazioni del mondo: la povertà, le
violenze e la violazione dei diritti umani, le guerre, i disastri
ambientali, il più delle volte provocati dal potere dei molti soldi
nelle mani di pochi. Arrivando fra noi, i migranti ci rivelano chi
sono: diversi per cultura e fede religiosa. Questa loropresenza ci
provoca a liberarci dalla convinzione secolare che ha identificato il
mondo con il “nostro” mondo e che ha indotto a considerare gli altri
mondi comunque inferiori e quindi da poter dominare, opprimere e
sfruttare.
- I migranti, allo stesso tempo, ci ricordano chi siamo stati. Il
nostro mondo si chiama fuori dalle gravi responsabilità nella storia
passata e recente nei loro confronti, come se loro stessi fossero causa
dei loro esodi costretti. Volutamente, con ignoranza consapevole e
colpevole, dichiariamo la nostra innocenza e con ipocrisia proponiamo,
ora che arrivano da noi, di intervenire nei loro paesi per fermarne i
flussi. Riflettendo sulle esperienze quotidiane di accoglienza,
cercando di leggere la realtà, avvertendo la complessità di questa
grande, dirimente questione ci sentiamo di dire che manca un progetto
mondiale, europeo, italiano e regionale che assuma contemporaneamente
due finalità: intervenire sulle cause strutturali delle forzate
partenze e predisporre un piano di accoglienza e di inserimento nelle
nostre società. L’Italia e la regione FVG rispondono in modo parziale
alla prima accoglienza eppure, anche se arduo, sarebbe un compito
indispensabile per non favorire indifferenza, paura, antagonismi e
rifiuti.
- Interrogativi, perplessità e paure sono comprensibili,
espressione di un contesto sociale, culturale, umano e religioso
segnato da difficoltà personali e relazionali, economiche, etiche e
politiche. Le paure, soprattutto, sono un vissuto da riconoscere e su
cui riflettere; non sono da sminuire ed esorcizzare. Esigono risposte
credibili. Molte situazioni di rifiuto che fanno capo a ideologie di
stampo razzista non suscitano purtroppo indignazione perfino nel nostro
mondo cattolico: si tratta di una situazione che ci interroga sul
mutamento profondo del modo di pensare e di comportarsi.
- Non abbiamo la capacità di indicare progetti concreti di grande
scala. Operiamo entro contesti ristretti, ma nel piccolo, per come ci è
possibile, cerchiamo di vivere l’accoglienza delle persone che fanno
fatica, senza distinzioni fra residenti e immigrati. Per quanto
riguarda gli immigrati, riteniamo che lo Stato e la Regione dovrebbero
orientarsi a progetti d’inserimento lavorativo in zone spopolate e
abbandonate dove è necessaria la presenza di persone e un impegno
lavorativo che riguardi l’ambiente, l’agricoltura, l’allevamento, la
lavorazione dei prodotti; e questo coinvolgendo insieme italiani e
stranieri. Si pensi, ad esempio, alle zone di montagna del pordenonese,
della Carnia, delle Valli del Natisone. Ci permettiamo ancora di
indicare la necessità dell’indispensabile e continua formazione
culturale, etica, spirituale all’incontro e alla relazione con l’altro,
con ogni altro: e questo nei vari ambiti e situazioni fra cui la scuola
assume un’importanza particolare.
- Il fenomeno migratorio esige una considerazione globale sugli
oltre 5 milioni di migranti che si sono inseriti, spesso con grandi
sacrifici, nei decenni scorsi nel nostro Paese, arricchendoci
culturalmente, demograficamente ed economicamente.
I poveri
I problemi reali nelle nostre città sono tanti e di varia natura. È
paradossale che quello delle strade da “ripulire” dalla povera gente
appaia il principale impegno da affrontare per un’amministrazione
pubblica. Si sente parlare, per di più in
maniera abbastanza clamorosa, di amministrazioni comunali che decidono
(novelli Rudy Giuliani) di “fare pulizia” nella propria città. Ciò che
più preoccupa, è che il termine venga riferito alla presenza
ingombrante di gente ai margini, povera, indicata come mendicante,
immigrata, che “importuna” con la questua, presenze scomode che
“deturpano” (sic) i siti urbani più adatti a una presentazione della
città in modo adeguato che a ospitare visioni… puzzolenti di gente che
trascina la propria disgrazia, non raramente ostentata attraverso vere
o false menomazioni.
Si amplificano le tinte, si esaspera la rappresentazione degli scenari:
le amministrazioni reagiscono minacciando sanzioni, multe, repressione
e non raramente forme di “deportazione urbana”. Le minacce si estendono
dalla povera gente questuante agli occasionali donatori di elemosine
che per vari motivi decidono di aiutare la persona in difficoltà. Senza
negare che qualche provvedimento vada preso, crediamo sia giusto non
minacciare in maniera plateale e spesso a scopi
elettoral-propagandistici, ma farsi carico, in quanto amministrazione
pubblica, del problema della povertà diffusa allo scopo di risolverlo.
Far rispettare la legge e contemporaneamente rispettare la dignità
delle persone: sono due doveri che non possono venire scissi. Leggiamo
sempre più spesso che gli amministratori locali, per giustificare
l’intervento repressivo, accampano la presenza di un vero e proprio
racket alle spalle dei questuanti. Si tratta di fatti concreti o di
voci che ad arte vengono amplificate per motivi anche elettoralmente
non proprio nobili? Se la presenza criminale è accertata,
l’Amministrazione Comunale, custode e garante della legalità, si
rivolga alle forze dell’ordine, alla Procura della Repubblica, presenti
formale e documentata denuncia dei fatti; non si accanisca contro
l’ultimo anello della catena.
La persona rimane tale e la sua dignità richiede di essere rispettata
in tutte le circostanze soprattutto in quelle di maggior fragilità. I
cristiani che in qualche modo aderiscono al messaggio evangelico, non
possono dimenticare che Francesco,
il vescovo di Roma, ha definito, in linea con il Maestro di Nazareth,
che i poveri «sono la carne di Cristo». Una città che vuol spazzar via
i poveri si troverà a breve impoverita dei valori che l’hanno, negli
anni, caratterizzata. Certamente le povertà sono tante e diffuse:
materiali, relazionali, culturali, economiche, etiche.
Drammatiche sono le perdite del lavoro e la ricerca che non trova
riscontri positivi. E questo ha ricadute preoccupanti sull’identità
stessa e sul senso della vita delle persone.
La violenza
La violenza ci attraversa e può insinuarsi in noi e negli altri. Si
esprime in modo implicito ed esplicito, brutale in parole,
atteggiamenti, azioni anche nei confronti di chi si dichiara di amare.
Avvertiamo l’importanza di studiare costantemente la dinamica della
distruttività disumana che oggi trova eco ampia e incontrollata sui
social media come
facebook e di sollecitare e
partecipare a processi educativi volti alla liberazione dalla
aggressività con scelte di non violenza attiva, con parole, gesti e
azioni di pace. La guerra è la massima manifestazione della violenza,
la sua brutale e distruttiva organizzazione. Ricordiamo l’insegnamento
chiaro ed esplicito di papa Francesco che finalmente ha liberato Dio da
qualsiasi possibile utilizzo per legittimare la guerra e ogni forma di
terrorismo.
Il rapporto con la
Terra e con i viventi
L’Enciclica
Laudato sii di
Papa Francesco è un documento straordinario per denuncia,
coinvolgimento, prospettiva, richiesta d’impegno: il mondo com’è
organizzato ora è destinato alla morte! Il superamento
dell’antropocentrismo, dell’assoluto della scienza e della tecnica,
dell’onnipotenza della finanza diventa possibile con l’assunzione di un
nuovo paradigma: quello della prossimità, del sentirci, cioè, parti
vive di un unico sistema vivente in cui tutto e tutti sono in relazione.
Esprimiamo il nostro dispiacere constatando che un testo così
significativo – anche perché frutto del concorso e della collaborazione
di tante persone competenti -
sia pressoché sparito dai progetti delle diocesi e delle parrocchie:
speriamo non dai corsi di teologia. A nostro avviso questa Enciclica
dovrebbe essere oggetto di
studio e riflessione nelle scuole, con la mediazione soprattutto degli
insegnanti di religione.
LA CHIESA NEL MONDO
La diminuzione drastica e inarrestabile dei preti dovrebbe sollecitare
a percorrere altre strade, ad aprirsi ad altre possibilità con una
decisione prioritaria, irrinunciabile che, ad enunciarla, potrebbe
sembrare scontata, ma tale non è: quella del ritorno
sine glossa, senza parentesi,
adeguamenti, facilitazioni e scorciatoie al Vangelo di Gesù di
Nazareth, alla rivoluzione del Vangelo, perché tale è, e a scelte di
vita conseguenti come persone, come comunità, come Chiesa. Quale
Chiesa, allora, nel momento dell’accorpamento delle parrocchie, delle
decisioni sulle zone e sulle cosiddette collaborazioni pastorali?
Ci pare che si sia perso tempo, con la chiusura nelle tradizionali ma
presunte sicurezze clericali di essere sicuri, bravi ed efficienti. Si
sono persi decenni senza promuovere e riconoscere il protagonismo
attivo di donne e di uomini di fede disponibili e responsabili, di
diaconi - donne e uomini - che oggi potrebbero assumere, senza essere
pallide e conformiste controfigure del clero, compiti significativi di
guida, animazione, coordinamento delle esperienze comunitarie.
Avvertiamo ancora
titubanze e freni anche rispetto alle celebrazioni delle comunità senza
la presenza del prete; eppure si tratta di esperienze che sono vissute
da decenni in migliaia di comunità in Africa, America Latina e altrove
nel mondo.
Pensiamo poi che le urgenze storiche sollecitino le convinzioni e le
richieste che da decenni emergono dalla base delle comunità cristiane,
uscendo da una visione clericale e separata del presbiterato: che i
diversi ministeri nelle comunità siano diversificati in modo aperto e
pluralista e che il ministero del presbiterato possa essere esercitato
da uomini celibi, da uomini sposati nelle condizioni di poter essere
ordinati, da preti che si sono sposati e a motivo della legge del
celibato obbligatorio hanno dovuto lasciare il loro ministero ma
sentono giusto e importante poterlo esercitare nuovamente; da donne
ordinate prete. Soprattutto queste ultime potrebbero portare alla
comunità, come tante di loro già fanno senza riconoscimento ufficiale,
la ricchezza della loro diversità di genere. Questa Chiesa sarebbe più
umana, più coinvolta nella vita delle persone, più credibile, certo
sempre in stretto, continuo e vivo rapporto con Gesù e il suo Vangelo e
con la fedele e coerente testimonianza.
CHI E CHE COSA PUÒ SALVARCI?
Coinvolti in questa situazione complessa e tribolata, in cui non
mancano certo i segni di speranza che incontriamo nelle esperienze di
sensibilità e di pratica del bene, ci chiediamo coinvolgendo anche voi
nella domanda e nella ricerca di risposta: «Chi e che cosa potrà
salvarci? Come, lentamente ma progressivamente, ne usciremo?».
Il pensiero, la scienza, la tecnica sono stati straordinari, sono
indispensabili e hanno contribuito e contribuiscono a tante situazioni
umane positive. Guardando le situazioni drammatiche del mondo attuale
dobbiamo però constatare che non ci salvano: non ci salvano dalla fame,
dalle guerre, dalle migliaia di morti in mare, dalla
distruzione dell’ambiente vitale. E questo, soprattutto, perché si sono
configurate come concentrazione di potere, perseguendo un’illusione di
onnipotenza e perché non hanno saputo convertire la ricchezza delle
loro scoperte e realizzazioni al servizio umile e disinteressato del
bene comune. Da questa indispensabile verifica etica escono giudicate
molto severamente.
Potrà salvarci la fede? La fede è fiducia e affidamento nel Dio di Gesù
che ci salva: in una reciprocità gratuita di amore da Lui donato, da
noi vissuto e comunicato
agli altri. La fede può salvarci se noi, sentendoci salvati, portiamo
segni di salvezza nella storia: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi, è
dentro di voi», non in un aldilà di proiezioni consolatorie. L’apostolo
Paolo nella lettera ai Corinzi, nella pagina definita “l’inno
all’amore” conclude con un’espressione profonda, provocatoria e
coinvolgente: «Ci sono quindi tre cose che contano: la fede, la
speranza e l’amore, ma più grande di tutte è l’amore».
La fede senza amore può diventare facilmente spiritualismo astratto,
istituzione di potere, ritualismo vuoto. Solo l’amore sollecita la fede
a farsi concreta prossimità, a incarnarsi nella storia per contribuire
a renderla più umana. La speranza senza amore può essere illusione
temporanea, volontarismo affannoso; l’amore rende consistente la
speranza che, così, può esprimere parole e gesti di bene, riprendendo
energia e forza interiore dopo sconferme, stanchezze e avvilimenti.
L’esperienza ci insegna che la speranza rifiorisce quando incontriamo
donne e uomini che, animati dall’amore, ci comunicano il bene che,
entrando in noi, riavvia energie e dinamiche positive di vita.
Accogliamo l’amore di Dio con gratitudine e con la disponibilità a
condividerlo con gli altri; a ricevere la loro ricchezza umana e a
comunicare la nostra. Con umiltà,
amore, resistenza, pazienza attiva e perseveranza, continuiamo il
nostro cammino con tutta l’umanità, attenti ai segni che incoraggiano
speranza e apertura. Ne ricordiamo uno che può diventare esemplare. Una
bambina di sette anni in un incontro pubblico a scuola racconta la sua
esperienza; la mamma è cristiana e il papà musulmano; la invitano con
serenità e delicatezza a cominciare a considerare la scelta fra le due
religioni. Lei risponde che vorrebbe sceglierle tutte e due. Mamma e
papà le dicono che non è possibile, mentre lei sente che può esserlo.
Un’intuizione straordinaria, certo legata alla relazione affettiva con
i genitori, ma che prospetta l’accoglienza della bontà dei principi
ispiratori di religioni diverse e soprattutto la loro attuazione nella
storia con la fedeltà e coerenza di vita.
I preti firmatari:
Pierluigi Di Piazza, Franco
Saccavini, Mario Vatta, Pierino Ruffato, Paolo Iannaccone, Giacomo
Tolot, Piergiorgio Rigolo, Renzo De Ros, Luigi Fontanot, Alberto De
Nadai, Albino Bizzotto, Antonio Santini.
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