Petizione
europea contro il TTIP, l'accordo di libero commercio tra UE e USA
L'11 ottobre è stata lanciata una raccolta di firme a livello europeo
per una petizione contro il TTIP (l'accordo di libero commercio tra UE
e USA) e il CETA (idem con il Canada). Per capire di che si tratta,
leggete sotto un articolo di Lori Wallach di Public Citizen.
Non abbiamo altra arma che quella di far sentire la nostra "piccola
voce" e come recita la fine del bellissimo articolo incollato sotto:
"...Come hanno mostrato le disavventure del Mai, del Ftaa e alcuni
cicli di negoziati del Wto, l’utilizzo del «commercio» come cavallo di
Troia per smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di
incaricati d’affari in passato ha fallito a più riprese. Nulla ci dice
che non possa succedere la stessa cosa anche questa volta."
PER FIRMARE -------> Ecco il
link:
http://stop-ttip.org/firma/
Leggi anche:
STOP-TTIP Italia
Trattato transatlantico, un uragano
che minaccia gli europei
di Lori Wallach*, Le Monde
Diplomatique
Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i
governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la
diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste
possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il
mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o
da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile
possa apparire, questo scenario non risale a ieri. Esso compariva già a
chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti
(Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai ventinove stati
membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(Ocse) (1).
Divulgato in extremis, in particolare da
Le Monde diplomatique,
il documento sollevò un’ondata di proteste senza precedenti,
costringendo i suoi promotori ad accantonarlo. Quindici anni più tardi,
essa fa il suo ritorno sotto nuove sembianze. L’accordo di partenariato
transatlantico (Ttip) negoziato a partire dal luglio 2013 tra Stati
uniti e Unione europea è una versione modificata del Mai. Esso prevede
che le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si
pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi
aziende europee e statunitensi, sotto pena di sanzioni commerciali per
il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro
a favore dei querelanti.
Secondo il calendario ufficiale, i negoziati non dovrebbero concludersi
che entro due anni. Il Ttip unisce aggravandoli gli elementi più
nefasti degli accordi conclusi in passato.
Se dovesse entrare in vigore, i privilegi
delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero
completamente le mani dei governanti. Impermeabile alle
alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, esso si
applicherebbe per amore o per forza poiché le sue disposizioni
potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i
paesi firmatari. Ciò riprodurrebbe in Europa lo spirito e le modalità
del suo modello asiatico, l’Accordo di partenariato transpacifico
(Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in
dodici paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti
d’affari.
Insieme, il Ttip e il Tpp formerebbero un impero economico capace di
dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere:
qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati
uniti e l’Unione europea si troverebbe costretto ad adottare tali e
quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune.
Tribunali appositamente creati
Dato che mirano a liquidare interi compartimenti del settore non
mercantile, i negoziati intorno al Ttip e al Tpp si svolgono a porte
chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di seicento consulenti
delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato
ai documenti preparatori e ai rappresentanti dell’amministrazione.
Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti
e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in
tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per
reagire. In uno slancio di candore, l’ex ministro del commercio
statunitense Ronald («Ron») Kirk ha fatto valere l’interesse «pratico»
di «mantenere un certo grado di discrezione di confidenzialità (2)». Ha
sottolineato che l’ultima volta che la bozza di un accordo in corso di
formalizzazione è stata resa pubblica, i negoziati sono falliti –
un’allusione alla Zona di libero scambio delle Americhe (Ftaa),
versione estesa dell’Accordo di libero scambio nordamericano (Nafta).
Il progetto, difeso accanitamente da George W. Bush, fu svelato sul
sito internet dell’amministrazione nel 2001.
A Kirk, la senatrice Elizabeth Warren
ribatte che un accordo negoziato senza alcun esame democratico non
dovrebbe mai essere firmato (3).
L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato
statunitense-europeo all’attenzione del pubblico si comprende
facilmente. Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli
effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato
federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le
assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le
loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei
settori che in parte gli sfuggono ancora.
Sicurezza degli alimenti, norme sulla
tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà
della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti
d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture
pubbliche, immigrazione: non c’è una sfera di interesse generale che
non passerà sotto le forche caudine del libero scambio
istituzionalizzato. L’azione politica degli eletti si limiterà a
negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di
sovranità che questi vorranno concedere loro. È già stipulato che i
paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi,
dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del
trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per
onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di
denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare
i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere
sanzioni commerciali contro questi ultimi.
L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia
dei trattati commerciali già in vigore. Lo scorso anno,
l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati
uniti per le loro scatole di tonno etichettate «senza pericolo per i
delfini», per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate,
e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal
momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli
al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione europea delle
penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di
importare organismi geneticamente modificati (Ogm).
La novità introdotta dal Ttip e dal
Tpp consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro
nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo
sulla loro vitalità commerciale. Sotto un tale regime, le aziende
sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione
dell’ambiente e di regolamentazione della finanza attivate in questo o
quel paese reclamando danni e interessi davanti a tribunali
extragiudiziari. Composte da tre avvocati d’affari, queste corti
speciali rispondenti alle leggi della Banca mondiale e
dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) sarebbero abilitate a
condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua
legislazione riducesse i «futuri profitti sperati» di una società.
Questo sistema «investitore contro stato», che sembrava essere stato
cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, è stato restaurato di
soppiatto nel corso degli anni. In virtù di numerosi accordi
commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati
dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del
divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua,
del suolo o del legname ecc. (4).
Sotto l’egida di questi stessi
trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di
interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e
le leggi sul clima e sulle energie fossili –
fanno schizzare le richieste di danni e
interessi a 14 miliardi di dollari.
Il Ttip aggraverebbe ulteriormente il peso
di questa estorsione legalizzata, tenuto conto degli interessi
in gioco nel commercio transatlantico. Sul suolo statunitense sono
presenti tremilatrecento aziende europee con ventiquattromila filiali,
ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere,
un giorno o l’altro, riparazione per un pregiudizio commerciale. Un
tale effetto a cascata supererebbe di gran lunga i costi causati dai
trattati precedenti. Dal canto loro, i paesi membri dell’Unione europea
si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande,
sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una
rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che
potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.
Ufficialmente, questo regime doveva servire inizialmente a consolidare
la posizione degli investitori nei paesi in via di sviluppo sprovvisti
di un sistema giuridico affidabile; esso avrebbe permesso di fare
valere i loro diritti in caso di esproprio. Ma l’Unione europea e gli
Stati uniti non sono esattamente delle zone di non-diritto; al
contrario, dispongono di una giustizia funzionale e pienamente
rispettosa del diritto di proprietà. Ponendoli malgrado tutto sotto la
tutela di tribunali speciali, il Ttip dimostra che il suo obiettivo non
è quello di proteggere gli investitori ma di aumentare il potere delle
multinazionali.
Processo per aumento del salario minimo
Ovviamente gli avvocati che compongono
questi tribunali non devono rendere conto a nessun elettorato.
Invertendo allegramente i ruoli, possono sia fungere da giudici che
perorare la causa dei loro potenti clienti (5). Quello dei giuristi
degli investimenti internazionali è un piccolo mondo: sono solo
quindici a dividersi il 55% delle questioni trattate fino a oggi.
Evidentemente, le loro decisioni sono
inappellabili. I «diritti» che essi hanno il compito di proteggere sono
formulati in modo deliberatamente approssimativo, e la loro
interpretazione raramente tutela gli interessi della maggioranza.
Come quello accordato all’investitore di beneficiare di un quadro
normativo conforme alle sue «previsioni» – per il quale va inteso che
il governo si vieterà di modificare la propria politica una volta che
l’investimento ha avuto luogo. Quanto al diritto di ottenere una
compensazione in caso di «espropriazione indiretta», ciò significa che
i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro
legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento,
anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali.
I tribunali riconoscono anche il
diritto del capitale ad acquistare sempre più terre, risorse naturali,
strutture, fabbriche, ecc. Non vi è nessuna contropartita da
parte delle multinazionali: queste non hanno alcun obbligo verso gli
Stati e possono avviare delle cause dove e quando preferiscono. Alcuni
investitori hanno una concezione molto estesa dei loro diritti
inalienabili. Si è potuto recentemente vedere società europee avviare
cause contro l’aumento del salario minimo in Egitto o contro la
limitazioni delle emissioni tossiche in Perú, dato che il Nafta serve
in quest’ultimo caso a proteggere il diritto a inquinare del gruppo
statunitense Renco (6). Un altro esempio: il gigante delle sigarette
Philip Morris, contrariato dalla legislazione antitabacco dell’Uruguay
e dell’Australia, ha portato i due paesi davanti a un tribunale
speciale. Il gruppo farmaceutico americano Eli Lilly intende farsi
giustizia contro il Canada, colpevole di avere posto in essere un
sistema di brevetti che rende alcuni medicinali più accessibili. Il
fornitore svedese di elettricità Vattenfall esige diversi miliardi di
euro dalla Germania per la sua «svolta energetica», che norma più
severamente le centrali a carbone e promette un’uscita dal nucleare.
Non ci sono limiti alle pene che un
tribunale può infliggere a uno Stato a beneficio di una multinazionale.
Un anno fa, l’Ecuador si è visto
condannato a versare la somma record di 2 miliardi di euro a una
compagnia petrolifera (7). Anche quando i governi vincono il
processo, essi devono farsi carico delle spese giudiziarie e di varie
commissioni che ammontano mediamente a 8 milioni di dollari per caso,
dilapidati a discapito del cittadino. Calcolando ciò, i poteri pubblici
preferiscono spesso negoziare con il querelante piuttosto che perorare
la propria causa davanti al tribunale. Lo stato canadese si è così
risparmiato una convocazione alla sbarra abrogando velocemente il
divieto di un additivo tossico utilizzato dall’industria petrolifera.
Eppure, i reclami continuano a crescere. Secondo la Conferenza delle
Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), a partire dal 2000
il numero di questioni sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato.
Se il sistema di arbitraggio commerciale è stato concepito negli anni
’50, non ha mai servito gli interessi privati quanto a partire dal
2012, anno eccezionale in termini di depositi di pratiche. Questo boom
ha creato un fiorente vivaio di consulenti finanziari e avvocati
d’affari. Il progetto di un grande mercato americano-europeo è
sostenuto da lungo tempo da Dialogo economico transatlantico
(Trans-atlantic business dialogue, Tabd), una lobby meglio conosciuta
con il nome di Trans-atlantic business council (Tabc). Creata nel 1995
con il patrocinio della Commissione europea e del ministero del
commercio americano, questo raggruppamento di ricchi imprenditori è
impegnato per un «dialogo» altamente costruttivo tra le élite
economiche dei due continenti, l’amministrazione di Washington e i
commissari di Bruxelles. Il Tabc è un forum permanente che permette
alle multinazionali di coordinare i loro attacchi contro le politiche
di interesse generale che restano ancora in piedi sulle due coste
dell’Atlantico. Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di
eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade
irritants), vale a dire di operare sui due continenti secondo le stesse
regole e senza interferenze da parte dei poteri pubblici.
«Convergenza regolativa» e «riconoscimento reciproco» fanno parte dei
quadri semantici che Tabc brandisce per incitare i governi ad
autorizzare i prodotti e i servizi che trasgrediscono le legislazioni
locali. Ma invece di auspicare un semplice ammorbidimento delle leggi
esistenti, gli attivisti del mercato transatlantico si propongono senza
mezzi termini di riscriverle loro stessi. La Camera americana di
commercio e BusinessEurope, due tra le più grandi organizzazioni
imprenditoriali del pianeta, hanno richiesto ai negoziatori del Ttip di
riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi
azionisti e di responsabili politici affinché questi «redigano insieme
i testi di regolamentazione» che avranno successivamente forza di legge
negli Stati uniti e in Unione europea. C’è da chiedersi, del resto, se
la presenza dei politici in questo laboratorio di scrittura commerciale
sia veramente indispensabile…
Di fatto, le multinazionali mostrano una notevole franchezza
nell’esporre le loro intenzioni. Sulla questione degli Ogm, ad esempio.
Mentre negli Stati uniti uno stato su due pensa di rendere obbligatoria
un’etichetta indicante la presenza di organismi geneticamente
modificati in un alimento – misura auspicata dall’80% dei consumatori
del paese –, gli industriali del settore agroalimentare, là come in
Europa, spingono per l’interdizione di questo tipo di etichettatura.
L’Associazione nazionale dei confettieri non usa mezzi termini:
«L’industria statunitense vorrebbe che il Ttip progredisse su tale
questione sopprimendo l’etichettatura Ogm e le norme relative alla
tracciabilità». L’influente Associazione dell’industria biotecnologica
(Biotechnology industry organization, Bio), di cui fa parte il colosso
Monsanto, dal canto suo si indigna perché alcuni prodotti contenenti
Ogm e venduti negli Stati uniti possano subire un rifiuto sul mercato
europeo. Essa desidera di conseguenza che il «baratro che si è scavato
tra la deregolamentazione dei nuovi prodotti biotecnologici negli Stati
uniti e la loro accoglienza in Europa» sia presto colmato (8). Monsanto
e i suoi amici non nascondono la speranza che la zona di libero scambio
transatlantico permetta di imporre agli europei il loro «catalogo ricco
di prodotti Ogm in attesa di approvazione e di utilizzo (9)».
Le rivelazioni sul Datagate
L’offensiva non è meno vigorosa sul
fronte della privacy. La Coalizione del commercio digitale
(Digital Trade Coalition, Dtc), che raggruppa industriali del Net e del
hi-tech, preme sui negoziatori del Ttip
per togliere le barriere che impediscono ai
flussi di dati personali di riversarsi liberamente dall’Europa verso
gli Stati Uniti (si legga l’articolo a pagina 20). I lobbisti si
spazientiscono: «L’attuale punto di vista dell’Unione, secondo cui gli
Stati uniti non forniscono una protezione “adeguata” della privacy, non
è ragionevole».
Alla luce delle rivelazioni di Edward Snowden sul sistema di spionaggio
dell’Agenzia nazionale di sicurezza (National security agency, Nsa),
tale opinione risoluta è certo interessante. Tuttavia, non eguaglia la
dichiarazione dell’Us council for international business (Uscib), un
gruppo di società che, seguendo l’esempio di Verizon, ha massicciamente
rifornito la Nsa di dati personali: «L’accordo dovrebbe cercare di
circoscrivere le eccezioni, come la sicurezza e la privacy, al fine di
assicurarsi che esse non siano ostacoli cammuffati al commercio».
Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di mira.
L’industria statunitense della carne vuole ottenere la soppressione
della regola europea che vieta i polli disinfettati al cloro.
All’avanguardia di questa battaglia, il gruppo Yum!, proprietario della
catena di fast food Kentucky fried chicken (Kfc), può contare sulla
forza d’urto delle organizzazioni imprenditoriali. L’Associazione
nordamericana della carne protesta: «L’Unione autorizza soltanto l’uso
di acqua e vapore sulle carcasse». Un altro gruppo di pressione,
l’Istituto americano della carne, deplora «il rifiuto ingiustificato
[da parte di Bruxelles] delle carni addizionate di beta-agonisti, come
il cloridrato di ractopamina». La ractopamina è un medicinale
utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di suini e bovini. A
causa dei rischi per la salute degli animali e dei consumatori, è stata
bandita in centosessanta paesi, tra cui gli stati membri dell’Unione,
la Russia e la Cina. Per la filiera statunitense del suino, tale misura
di protezione costituisce una distorsione della libera concorrenza a
cui il Ttip deve urgentemente porre fine. Il Consiglio nazionale dei
produttori di suino (National pork producers council, Nppc) minaccia:
«I produttori americani di carne di suino non accetteranno altro
risultato che non sia la rimozione del divieto europeo della
ractopamina».
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, gli industriali
raggruppati in BusinessEurope, denunciano le «barriere che colpiscono
le esportazioni europee verso gli Stati uniti, come la legge americana
sulla sicurezza alimentare». Dal 2011, essa autorizza infatti i servizi
di controllo a ritirare dal mercato i prodotti d’importazione
contaminati. Anche in questo caso, i negoziatori del Ttip sono pregati
di fare tabula rasa. Si ripete lo stesso con i gas a effetto serra.
L’organizzazione Airlines for America (A4A), braccio armato dei
trasportatori aerei statunitensi, ha steso una lista di «regolamenti
inutili che portano un pregiudizio considerevole alla [loro] industria»
e che il Ttip, ovviamente, ha la missione di cancellare. Al primo posto
di questa lista compare il sistema europeo di scambio di quote di
emissioni, che obbliga le compagnie aeree a pagare per il loro
inquinamento a carbone. Bruxelles ha provvisoriamente sospeso questo
programma; A4A esige la sua soppressione definitiva in nome del
«progresso».
Ma è nel settore della finanza che la
crociata dei mercati è più virulenta. Cinque anni dopo
l’esplosione della crisi dei subprime, i negoziatori americani ed
europei si sono trovati d’accordo sul fatto che le velleità di
regolamentazione dell’industria finanziaria avevano fatto il loro
tempo. Il quadro che essi vogliono delineare prevede di levare tutti i
paletti in materia di investimenti a rischio e di impedire ai governi
di controllare il volume, la natura e l’origine dei prodotti finanziari
messi sul mercato. Insomma si tratta puramente e semplicemente di
cancellare la parola «regolamentazione».
Da dove viene questo stravagante ritorno alle vecchie idee
thatcheriane? Esso risponde in particolare ai desideri
dell’Associazione delle banche tedesche, che non manca di esprimere le
sue «inquietudini» a proposito della tuttavia timida riforma di Wall
street adottata all’indomani della crisi del 2008. Uno dei suoi membri
più intraprendenti sul tema è la Deutsche bank, che ha tuttavia
ricevuto nel 2009 centinaia di miliardi di dollari dalla Federal
reserve statunitense in cambio di titoli addossati a crediti ipotecari
(10). Il mastodonte tedesco vuole farla finita con la regolamentazione
Volcker, chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso
sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche non statunitensi».
Insurance Europe, punta di lancia delle società assicurative europee,
dal canto suo auspica che il Ttip «sopprima» le garanzie collaterali
che dissuadono il settore dall’avventurarsi negli investimenti ad alto
rischio. Quanto al Forum dei servizi europei (l’organizzazione
padronale di cui fa parte la Deutsche bank), questi si agita dietro le
quinte delle trattative transatlantiche affinché le autorità di
controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle
grandi banche straniere operanti sul loro territorio.
Da parte degli Usa, si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il
progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie. La questione
pare essere già intesa, dal momento che la stessa Commissione europea
ha giudicato tale tassa non conforme alle regole del Wto (11). Nella
misura in cui la zona di libero scambio transatlantica promette un
liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto, e dato che il Fondo
monetario internazionale (Fmi) si oppone a qualunque forma di controllo
sui movimenti di capitali, negli Stati uniti la debole «Tobin tax» non
preoccupa più nessuno.
Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo
nell’industria finanziaria. Il Ttip intende aprire alla concorrenza
tutti i settori «invisibili» e di interesse generale. Gli stati
firmatari si vedranno costretti non soltanto a sottomettere i loro
servizi pubblici alla logica del mercato, ma anche a rinunciare a
qualunque intervento sui fornitori stranieri di servizi che ambiscono
ai loro mercati. I margini politici di manovra in materia di sanità,
energia, educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero progressivamente.
La febbre commerciale non risparmia
nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si
arrogano il potere di stabilire una politica comune alle frontiere –
senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da
vendere, a svantaggio degli altri.
Da qualche mese si è intensificato il ritmo dei negoziati. A
Washington, si hanno buone ragioni di credere che i dirigenti europei
siano pronti a qualunque cosa per ravvivare una crescita economica
moribonda, anche a costo di rinnegare il loro patto sociale.
L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il libero scambio
deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque creatore di
impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma
sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli
Stati uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il
rappresentante statunitense al commercio (12). I fautori del Ttip
ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire
i vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre
«l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali
superflue (13)», dal momento che viene considerato «superfluo» tutto
ciò che rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della
finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio della
democrazia. In realtà i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip
non si attardano per nulla sulle sue ricadute sociali ed economiche.
Un rapporto frequentemente citato, proveniente dal Centro europeo di
economia politica internazionale (European centre for international
political economy, Ecipe), afferma con l’autorevolezza di un
Nostradamus da scuola commerciale che il Ttip darà alla popolazione del
mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi
pro-capite al giorno… a partire dal 2029 (14). A dispetto del suo
ottimismo, lo stesso studio valuta ad appena 0,06% l’aumento del
prodotto interno lordo (Pil) in Europa e negli Stati uniti in seguito
all’entrata in vigore del Ttip. Ancora, un tale «impatto» è decisamente
non realistico dato che i suoi autori postulano che il libero scambio
«dinamizza» la crescita economica: una teoria regolarmente confutata
dai fatti. Un aumento così infinitesimale sarebbe d’altronde
impercettibile. A titolo di paragone, la quinta versione dell’iPhone di
Apple ha generato negli Stati uniti una crescita del Pil otto volte più
importante.
Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni
favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali,
ragione per cui i costi sociali del trattato non appaiono mai, così
come le sue vittime dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a
centinaia di milioni. Ma i giochi non sono ancora conclusi. Come hanno
mostrato le disavventure del Mai, del Ftaa e alcuni cicli di negoziati
del Wto, l’utilizzo del «commercio» come cavallo di Troia per
smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati
d’affari in passato ha fallito a più riprese. Nulla ci dice che non
possa succedere la stessa cosa anche questa volta.
* Direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, Washington, DC,
www.citizen.org
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