Manifesto dell’Alpe Adria 1918 – 2018
War is over!
Se vuoi. Če hočeš. Wenn du es willst.
„Quella in cui stiamo vivendo è una situazione nuova in cui si prepara
una nuova umanità di convivenza fra le persone diverse: dipenderà dalle
scelte di oggi la qualità della convivenza del futuro.” (Pierluigi di
Piazza).
La crisi e i conflitti della nostra
epoca sono sotto gli occhi di tutti. Le tendenze all’imbarbarimento del
linguaggio e della cultura politica, l’indebolimento della solidarietà
dovuto alla riduzione dei diritti sociali, la sostanziale indifferenza
nei confronti dei cambiamenti climatici e di altri rischi ambientali,
l’arbitraria distruzione di quanto rimane del progetto di un’Europa di
pace: questa è la nostra realtà. Invece di cercare di opporsi a tutto
questo, alcuni governi e alcune forze politiche europee parlano del
pericolo costituito dai profughi e dai migranti, dell’islamizzazione
del continente, delle minacce alla sua cultura democratica, mentre sono
questi governi stessi a svuotare l’idea di Europa dei suoi contenuti
migliori. Razzismo, ostilità verso gli stranieri e odio ispirato dal
nazionalismo, una volta relegati ai margini della politica, sono ora al
centro del dibattito sociale.
Dobbiamo scegliere: o capitoliamo di
fronte alla mancanza di umanità, oppure ci opponiamo ad essa con il
cuore, in favore di una vita migliore per tutti. Questo manifesto
intende invitare ad un lavoro per l’oggi, partendo dall’elaborazione
del passato, muovendo dal secolo scorso e raccogliendo le forze a
favore di una politica civile di giustizia e libertà a livello
mondiale. La politica che proponiamo non deve aver timore di
intraprendere grandi cambiamenti, qualora questi siano necessari, e
deve saper coniugare la visione cosmopolita con quella locale –
segnatamente nella Regione dell’Alpe Adria.
La zona in cui viviamo, l’Alpe Adria,
fu uno dei teatri principali della “Grande Guerra”, conclusasi 100 anni
fa. Qui, più che altrove, i cambiamenti dei confini hanno avuto
conseguenze sensibili. La “grande guerra civile europea” (Enzo
Traverso) abbraccia la Prima, la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah:
una serie di distruzioni e sofferenze immani, che comportarono anche
spostamenti di confini, esodi forzati e insediamenti in nuovi
territori. La contrapposizione fra capitalismo e comunismo durante la
Guerra Fredda e la cortina di ferro spaccarono poi il nostro continente
per decenni. Oggi, dopo il crollo del “socialismo reale”, è
concretamente possibile sperare in una unificazione dell’Europa su basi
democratiche. Al contempo però, vi sono notevoli forze che a questo si
oppongono, anche all’interno dell’Unione Europea. Nella Regione
dell’Alpe Adria i rapporti fra gli Stati e i popoli sono buoni, ma
l’eredità di un passato violento ha lasciato ricordi che possono
fomentare nuove tensioni e alimentano una politica che si nutre di
nazionalismo e di conflitti.
(1) “Non bisogna temere di dire la
verità alle persone, perché esse sono in grado di sostenerne il peso”
(Ingeborg Bachmann)
“Non ci manca la conoscenza, ma il coraggio per capire ciò che sappiamo
e trarne le debite conseguenze.” (Sven Lindqvist). La riflessione sul
nostro presente e sul nostro futuro esige che si torni a considerare il
nostro passato in modo critico, anche verso noi stessi. È assolutamente
necessario, anche se tutt’altro che semplice, tener conto del fatto che
i nostri stati attuali hanno come predecessori l’Austria-Ungheria e
l’Italia monarchica, entità politiche cui vanno attribuiti sia la
responsabilità della guerra, che il modo atroce in cui venne condotta.
La fine degli stati multinazionali nel 1918 – si trattò anche di
un’autodistruzione - non generò la democrazia all’interno degli stati
che ne derivarono, né nei rapporti fra i differenti gruppi nazionali,
né tra quelli tra le diverse classi sociali. Al contrario, la guerra fu
seguita da conflitti che portarono all’instaurazione del fascismo e del
nazionalsocialismo.
D’altra parte, il comunismo e lo stalinismo trasformarono un’ideologia
di liberazione in una dottrina totalitaria e in un sistema di
oppressione. Non rimpiangiamo certo tutte queste dittature, ma occorre
ricordare che la promessa di giustizia sociale alimentava speranze che
ancora oggi non si sono realizzate.
A lungo poi si è ignorato lo sfruttamento dei paesi sottoposti a
colonizzazione, coinvolti anch’essi nella guerra mondiale scoppiata in
Europa. Il colonialismo è continuato anche dopo il 1918, se solo
pensiamo ad esempio alle crudeli guerre coloniali condotte dall’Italia
fascista in Libia e in Abissinia. Molte questioni allora irrisolte, o
risolte con criteri imperialistici, come i confini tracciati in Medio
Oriente, costituiscono oggi focolai e materia di conflitti.
(2) „Civiltà e barbarie si sono
intrecciate nella mondializzazione dell’Europa“ (Edgar Morin &
Mauro Ceruti)
Siamo figli del XX secolo, un’epoca di guerre ed eccessi di violenza
terribili, come anche di grandi progressi, quali ad esempio l’inizio
del processo di decolonializzazione, la codificazione dei diritti umani
e la fondazione dell’ONU, oltre che dell’esperimento della nonviolenza
come strategia politica. Tuttavia, sindromi perniciose quali il
nazionalismo e l’esclusione dell’altro, non sono sparite dopo la fine
della Seconda Guerra Mondiale. Il razzismo cambia spesso di forma:
antisemitismo, anti islamismo o anti slavismo, o un mix di tutto, ma
nella sua essenza non è scomparso. Si tratta di una politica fondata
sulla paura dell’altro, mirante a dividere persone che in realtà
avrebbero i medesimi interessi. Una politica che trasforma paure
sociali legittime – la paura di perdere la propria posizione sociale,
di perdere il lavoro e la sicurezza – in invidia, rabbia e odio nei
confronti dei capri espiatori di turno. È populismo, perché, invece di
chiarire le situazioni, rafforza i pregiudizi esistenti e fa appello
alle nostre tendenze peggiori, anziché alle nostre qualità migliori.
Il “nuovo nazionalismo” rifiuta il fenomeno delle migrazioni e parla di
una sovranità politica che già non esiste più. Si tratta di una “messa
in scena di un potere e di una capacità di tutela, che gli stati sempre
meno sono in grado di offrire” (Wendy Brown), dato che le politiche
economiche e sociali degli stati sono ormai determinate dai mercati
transazionali e non dalle volontà dei rispettivi governi. Il “nuovo
nazionalismo” fa leva sul narcisismo ferito di una virilità malata,
rinfocolando vecchi ideali di eroismo guerriero imperanti durante la
Prima Guerra Mondiale. Tutto questo armamentario patologico e superato,
oggi si manifesta in forme di ostilità aggressiva, di violenza
domestica e di fanatismo politico, e arriva fino agli estremi del
terrorismo, dell’islamismo radicale e del radicalismo di destra.
Il “nuovo nazionalismo” promette una politica a favore degli strati
sociali più bassi, ma, come possiamo vedere, quello che succede è il
contrario: i diritti sociali vengono demoliti, i sindacati perdono la
loro influenza sociale, e le organizzazioni della società civile, che
sostengono i gruppi più svantaggiati, vengono private del sostegno
finanziario. Dietro gli slogan populisti si cela una politica
neoliberista di redistribuzione delle risorse a danno degli strati
sociali più poveri e a beneficio dei ricchi.
Negli ultimi cento anni vi sono stati però anche esempi di resistenza
al principio del profitto senza freni. Si sono tentati anche molti
esperimenti di organizzazione sociale solidale – non tutti invero
coronati da successo. La resistenza al nazismo e al fascismo, anche
all’interno dell’Alpe Adria, è un fatto storico tuttora fecondo. Lo
sforzo di imparare da Auschwitz e da Hiroshima, di vincere i
pregiudizi, la volontà di andare incontro al nemico di un tempo e di
collaborare con lui, sono parti vive della nostra eredità. L’idea di
un’Europa di pace come categoria politica risale ai movimenti pacifisti
dell’Ottocento, ma solo dopo due guerre mondiali ha cominciato a
realizzarsi. La fondazione del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea
sono stati i primi passi, che tuttavia non hanno potuto impedire il
disastro delle guerre jugoslave degli anni Novanta. Un’Europa intesa
come progetto di pace può avere successo, solo se non si fonda
sull’ideologia dello stato nazionale e del capitalismo senza freni,
bensì sul superamento di essi.
(3) “I destini umani sul pianeta oggi
sono più collegati che mai. I confini fra i problemi degli “altri” e i
“nostri” sono via via più sfumati” (Janez Drnovšek)
La globalizzazione neoliberale determina oggi intrecci complessi fra
economia, politica e cultura di dimensioni planetarie, e al contempo
provoca nuove spaccature sociali, a livello sia interno che
internazionale. La dottrina economica della massimizzazione del
profitto rischia di trasformarsi in un principio generale che regola i
rapporti umani. La diffusa cultura della diffidenza, della rivalità,
dell’invidia e del meschino vantaggio personale sottrae valore ai
fondamenti etici e spirituali su cui poggia la qualità della vita di
ogni singola persona.
Ci troviamo dinanzi a una situazione paradossale, dato che le necessità
e gli interessi “nostri” e degli “altri” non sono mai stati così
intimamente connessi. I problemi ecologici mondiali, quali i
cambiamenti climatici, l’inquinamento, la lotta alla fame, i diritti
delle donne e dei bambini, l’addio ai combustibili fossili, la
sostenibilità di una produzione non più orientata alla crescita
permanente: tutto questo richiede una cooperazione globale in spirito
di solidarietà.
Quello che invece ora vediamo è un ripiegarsi, in nome dell’identità,
su ciò che si ritiene essere proprio. Si nega l’urgenza dei problemi,
si fa il minimo per opporsi ai cambiamenti climatici, mentre il ricco
nord del mondo continua a sfruttare senza freni il sud del pianeta. In
contraddizione con i propri principi, l’Europa costruisce muri sempre
più alti, sia reali, che legali e mentali, contro chi emigra dal sud.
Queste persone però fuggono soprattutto dalle conseguenze del nostro
stile di vita, che si fonda su presupposti di sfruttamento e minaccia
degli altri continenti. I profughi “scappano da noi per le conseguenze
della nostra politica” (Michael Richter). Il Mediterraneo, che una
volta era luogo di comunicazione fra i popoli, è diventato il mare
della segregazione. La stessa Europa rischia di frantumarsi in stati
nazionali che si guardano in cagnesco. Tuttavia “a livello nazionale
non è possibile né salvare la democrazia, né rendere più umano il
capitalismo; occorre invece che la democrazia si contrapponga al
mercato a livello transnazionale.” (Andreas Gross)
Se noi davvero vogliamo un mondo ove regni la giustizia sociale, nel
nord globalizzato non possiamo più continuare a vivere come stiamo
vivendo ora. Desideriamo quindi contrapporre, a questa politica
autolesionista della paura, dell’invidia e dell’avidità, fonte di
razzismo e di divisioni, una politica del coraggio, della serenità e
della generosità, fondata sulla solidarietà.
Sosteniamo dunque tutte le iniziative in tal senso già in essere.
Crediamo in un’Europa che crede in se stessa e che ha imparato dai
propri errori. Un’Europa, questa, che ha smesso di fare da maestra del
resto del mondo e di sottometterlo. Se ancora esiste una missione del
“Vecchio Continente”, questa è di decidersi finalmente ad applicare con
coerenza a se stessa i principi alla base dei diritti umani, della
democrazia e della nonviolenza, principi sorti sul suo territorio,
anche se generati da persone di tutti i paesi del mondo. L’Europa deve
mantenere la varietà delle identità locali e al contempo promuovere
l’unità, con partiti politici e forme di democrazia transnazionali. Una
comunità con caratteristiche maggiormente federali, che controbilancino
a livello regionale l’Europa della nazioni, in luogo di una EU
centralizzata e regolata in modo autoritario sulla base della logica
del mercato. Un’Europa aperta ai suoi vicini dell’est e soprattutto del
sud, e che consideri il mare, che non a caso si chiama Mediterraneo,
come un ponte. Un’Europa, che con un “piano Marshall” per l’Africa
dimostri di sapere che qui possiamo stare bene, solo se stanno bene
anche le persone che vivono in altre parti del mondo.
L’Europa può essere davvero un progetto di pace, solo se reca pace al
suo interno, come anche all’esterno. Europa deve diventare il nome del
nostro contributo particolare a un’unione mondiale per la pace. Il suo
nucleo può essere solo un sistema economico e politico giusto a livello
globale, in cui la forza del diritto prenda il posto del diritto del
più forte. Ciò include anche la rinuncia a una politica di esercizio
del potere militare e l’impegno per il disarmo globale.
Dobbiamo essere consapevoli della serietà e dell’attualità di queste
sfide, e farcene carico. Ciò significa essere pronti a cambiare
radicalmente stile di vita, orientandoci non più alla crescita, ma alla
sostenibilità. Se rinunciamo al nostro stile di vita imperiale e
trasformiamo le nostre società secondo criteri sociali e ecologici,
scopriremo che potremo godere noi stessi di una nuova qualità della
vita. È questo il senso dei Sustainable Development Goals (SDGs), i 17
obiettivi per uno sviluppo sostenibile dell’ONU, al perseguimento dei
quali si sono impegnati anche i nostri stati nel 2015.
(4) „Una terra che si apre all’altro,
alla storia, agli avvenimenti…“ (Fulvio Tomizza)
Da soli non possiamo cambiare il mondo, ma possiamo fare di tutto per
lavorare a favore di una vita sostenibile e pacifica nella nostra
regione dell’Alpe Adria, plurilingue, abitata da etnie che convivono, e
in perenne cambiamento. Occorre rafforzare da subito la cooperazione
regionale al di là dei confini, non per coltivare i nostri piccoli
interessi, ma come strumento di realizzazione degli obiettivi globali
di sviluppo a livello locale, per costituire un mattone di un’Europa
federale e democratica.
Dobbiamo mantenere e valorizzare il tesoro delle diversità, nucleo
dell’idea dell’Alpe Adria.
Non vi è forse altro luogo in Europa ove lo spostamento dei confini,
determinato dagli eventi storici, abbia fatto capire altrettanto bene
quanto qui da noi, come sia importante interrogarsi sul senso dei
confini e avere la capacità di valicarli. La zona dell’Alpe Adria è
diventata un melting pot con le guerre e gli sfollamenti prima, e poi
con le migrazioni causate da ragioni economiche. Abbiamo appena
iniziato a prendere le distanze da ogni forma di pensiero totalitario e
a sviluppare nuove forme di dialogo, per gettare le fondamenta di un
futuro sostenibile fondato sulla memoria e la riconciliazione. Abbiamo
però già accumulato varie esperienze di cooperazione transnazionale,
che con la fondazione nel 1978 della Comunità di lavoro Alpe Adria ha
assunto anche forme organizzative. Tutte queste esperienze dovrebbero
renderci più aperti e tolleranti nei confronti di chi arriva da noi
ora, migranti e profughi.
Questi debbono trovare posto all’interno di un’identità dell’Alpe Adria
che si riconosca nello spirito dell’inclusione. Questa identità
dell’Alpe Adria, più grande dell’identità locale e più sfaccettata
dell’identità nazionale, potrebbe costituire il ponte per l’identità
europea e il simbolo di un’identità cosmopolita.
Nella nostra regione hanno vissuto molte donne e molti uomini
eccezionali, che possono costituire per noi un modello di orientamento.
Come esempio ricordiamo la scrittrice carinziana Ingeborg Bachmann,
l’arcivescovo di Udine Alfredo Battisti, lo scrittore antifascista
sloveno Ciril Kosmač, la psicoterapeuta e scrittrice pacifista slovena
Maruša Krese, lo scrittore Julius Kugy, padre dell’alpinismo moderno
delle Alpi Giulie, Pier Paolo Pasolini, regista e intellettuale di
origini friulane, lo scrittore Fulvio Tomizza e vari altri. Tutti
questi hanno criticato le molteplici forme di violenza, si sono
sforzati di rendere la società più civile e hanno offerto un contributo
personale alla conciliazione e alla pace. La loro opera dovrebbe
diventare parte integrante di un progetto educativo transnazionale per
i giovani all’interno dell’Alpe Adria.
Promuovendo l’unione senza preclusioni, l’Alpe Adria, intesa nel senso
di regione transnazionale per la pace, potrebbe diventare un
laboratorio per un’Europa di pace. Un dibattito costruttivo su quanto
avvenuto nel XX secolo potrebbe fare dell’Alpe Adria una regione che ha
imparato a imparare dalla storia. L’utopia concreta di un’Alpe Adria
come regione per la pace è il nostro migliore antidepressivo.
(5) “Le utopie sono le fonti di forza
decisive di ogni movimento di emancipazione” (Oskar Negt)
Quello che oggi spesso manca è la capacità di indignarsi, e la
speranza. Manca il coraggio di credere che il mondo possa cambiare, e
il coraggio di lavorare concretamente perché questo cambiamento vi sia.
Anche questo è una sindrome del pensiero unico dominante, che si
suppone essere non ideologico, e che vuole farci credere che non vi
siano alternative alla situazione presente. Quanto è accaduto nel
secolo scorso ci mostra però che il cambiare qualcosa davvero dipende
da noi. Il carinziano Robert Musil ci ha insegnato a servirci del
nostro senso del possibile. Questo senso del possibile lo troviamo
anche nell’appello di John Lennon, che ha ispirato questo manifesto:
“War is over… if you want it.”
Werner Wintersteiner, agosto 2018.
Traduzione all’italiano: Francesco Pistolato.
In allegato il manifesto in pdf