Il
decreto legge n. 1/2023: come ostacolare il soccorso in mare
di Gianfranco Schiavone
9 gennaio 2023
Nella relazione illustrativa del decreto legge 2 gennaio 2023 n. 1
inviata alla Camera dei Deputati si afferma che «l’intervento operato
con il presente decreto si propone […] due obiettivi: […] definire le
condizioni in presenza delle quali le attività svolte da navi che
effettuano interventi di recupero di persone in mare possono essere
ritenute conformi alle convenzioni internazionali [e] disciplinare più
compiutamente gli effetti della violazione del limite o del divieto di
transito e sosta nel mare territoriale, disposto nei confronti della
nave che abbia recuperato persone discostandosi dall’osservanza delle
richiamate condizioni». Il primo obiettivo è piuttosto singolare
giacché le condizioni in presenza delle quali le attività di soccorso
in mare sono conformi alle convenzioni internazionali sono già definite
nelle convenzioni stesse, le quali sono norme di rango superiore
(articoli 10 e 117 Costituzione) e quindi una norma interna o è del
tutto pleonastica o, se introduce condizioni diverse, non è conforme
proprio a quelle normative internazionali che si afferma di voler
rispettare. Il secondo obiettivo è espresso in un linguaggio così
involuto e fumoso che è arduo coglierne il contenuto. Chiara è invece
la parafrasi politica della norma fatta dalla premier Meloni che in un
video del 30 dicembre ha affermato che il Governo ha varato le norme
sulle navi ONG «per rispettare il diritto internazionale e anche i
migranti, perché se qualcuno sta rischiando la vita ha diritto a essere
salvato», ma che «il diritto internazionale sul salvataggio in mare non
prevede che ci sia qualcuno che può fare il traghetto nel Mediterraneo
o in un altro mare e fare la spola con gli scafisti per trasferire la
gente da una nazione all’altra». La signora Meloni propone così una
distinzione, da lei attribuita nientemeno che al diritto
internazionale, tra un soccorso fortuito, e quindi vero e doveroso, e
un soccorso frutto di un’attività sistematica di ricerca che vero
soccorso non sarebbe, bensì attività attuata in collusione con le
organizzazioni criminali che organizzano il traffico dei migranti:
evidentemente, ignorando che la Convenzione delle Nazioni Unite sul
diritto del mare del 1982 e la Convenzione internazionale per la
sicurezza della vita in mare del 1974 impongono agli Stati rivieraschi
l’obbligo di predisporre un servizio di ricerca e soccorso “adeguato ed
effettivo” delle persone in pericolo in mare lungo le loro coste. Ciò
non avviene nel Mediterraneo e a questa mancanza suppliscono le
organizzazioni che fanno soccorso in modo sistematico. Non c’è, dunque,
nulla di anomalo o di irregolare in tale opera di supplenza, con buona
pace della signora Meloni. Di più, il diritto internazionale è chiaro:
l’obbligo di soccorso è inderogabile e deve essere sempre adempiuto, da
qualsiasi nave e qualunque sia la fonte dell’informazione
sull’imbarcazione in stato di pericolo (ancora Convenzione del 1974).
Il testo del decreto legge n. 1/2023,
in parziale continuità con il decreto n. 130/2020, prevede che
l’Esecutivo possa «limitare o vietare il transito e la sosta di navi
nel mare territoriale» per motivi di ordine e sicurezza pubblica
escludendo, peraltro, tale divieto «nel caso di operazioni di soccorso
immediatamente comunicate al Centro di coordinamento per il soccorso
marittimo dello Stato nella cui area SAR di competenza ha avuto luogo
l’evento e allo Stato di bandiera della nave, e qualora ricorrano
congiuntamente tutte le seguenti condizioni: a) la nave che effettua
sistematicamente attività di ricerca e soccorso abbia le autorizzazioni
rilasciate dalle autorità dello Stato di bandiera e possegga i
requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione;
b) siano avviate tempestivamente informative alle persone soccorse
della possibilità di chiedere protezione internazionale; c) sia chiesta
nell’immediatezza dell’evento l’assegnazione del porto di sbarco; d) il
porto di sbarco sia raggiunto senza ritardo; e) siano fornite alle
autorità marittime o di polizia le informazioni per ricostruire
dettagliatamente l’operazione di soccorso; f) le modalità di ricerca e
soccorso in mare non abbiano concorso a creare situazioni di pericolo a
bordo né impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco».
Esaminiamo singolarmente queste nuove disposizioni.
La previsione di cui alla lettera a)
fa ricorso a espressioni ovvie che, a un’analisi letterale, non
introducono nulla di nuovo rispetto a quanto già previsto: tutte le
navi che svolgono attività di soccorso devono rispettare i requisiti e
possedere le certificazioni statutarie previste per la classe assegnata
dallo Stato di bandiera. Il contenuto esplicito della norma sembra però
celare un obiettivo che consiste nel cercare di imporre a tali navi
requisiti speciali e ulteriori, così da rendere difficile o impossibile
la navigazione. Ma una recentissima sentenza della Corte di giustizia
(1 agosto 2022, cause riunite C-14/21 e C-15/21, proprio contro
l’Italia) ha chiarito che lo Stato di approdo non può pretendere
certificazioni diverse da quelle rilasciate dallo Stato di bandiera, né
può esigere che le navi rispettino prescrizioni tecniche ulteriori e
diverse da quelle previste dalle Convenzioni internazionali pertinenti.
La decisione della Corte di giustizia esclude, quindi, la legittimità
di un fermo amministrativo delle navi di soccorso per ritenuta
violazione di detta condizione, come previsto dall’art. 2 quater e
seguenti del decreto legge n. 130/2022, come modificato dal decreto n.
1/2023 (così ASGI, 5 gennaio 2023:
https://www.asgi.it/primo-piano/contro-la-costituzione-le-ong-e-i-diritti-umani-linsostenibile-fragilita-del-decreto-legge-n-1-2023/).
Le previsioni di cui alla lettera b)
rappresentano probabilmente il punto più delicato del nuovo decreto. È
pienamente legittimo, e spesso viene già fatto dalle ONG, che a bordo
della nave che ha effettuato il soccorso i naufraghi vengano informati
dei loro diritti sulla possibilità di chiedere protezione
internazionale. Chiarire che tale attività è pienamente lecita e
incentivarla potrebbe configurarsi come il riconoscimento dell’attività
di tutela operata dalle ONG. Se fosse questa l’intenzione
dell’Esecutivo, peraltro, sarebbe necessario prevedere forme chiare e
formalizzate di collaborazione tra l’amministrazione pubblica e le ONG,
fondate sul pieno riconoscimento dell’attività condotta. Ma la volontà
politica è l’esatto opposto. Come sottolinea l’ASGI nel documento già
citato, la prescrizione di informare i naufraghi della possibilità di
richiedere la protezione internazionale «non può essere data ai
comandanti di una nave battente bandiera di un altro Stato poiché i
relativi poteri e doveri sono indicati dalla legge nazionale di quello
Stato (art. 8 Codice della navigazione, regio decreto n. 327/42) e
pertanto lo Stato italiano non può imporre competenze non previste
dall’ordinamento dello Stato di bandiera», ma soprattutto l’intera
materia della protezione internazionale nell’Unione europea ha una sua
specifica disciplina di settore la quale prevede che gli Stati
indichino nella propria normativa quali siano le autorità competenti
all’esame delle domande di protezione internazionale e quelle
incaricate della ricezione delle domande, che nel nostro ordinamento
sono la polizia di frontiera o il personale di polizia presso le
questure. È ben vero che l’attività informativa è distinta dalla
competenza ad esaminare la domanda e che effettuare tale attività è
indubbiamente lecito (e, ad avviso di chi scrive, anche assai utile)
tutte le volte in cui le condizioni di navigazione e la presenza di
interpreti e di personale qualificato lo rendono possibile. Ma cosa ben
diversa è imporre un obbligo informativo in un contesto, quello del
soccorso in mare che, per sua natura, non presenta quasi mai le
caratteristiche per operare in tal senso e che, comunque, ha come unica
finalità quella di effettuare il soccorso e portare al sicuro i
naufraghi senza alcuna valutazione della loro condizione giuridica.
Anche in questo caso la norma sottende un obiettivo nascosto e più
volte annunciato dal Governo italiano, ovvero quello di ritenere che la
competenza all’esame della domanda di protezione internazionale si
radichi nel Paese di bandiera della nave che ha effettuato il soccorso,
se paese europeo. Ho avuto occasione più volte di vedere tale
argomentazione presentata oltre che da politici, da esperti del diritto
della navigazione, e mi ha colpito in queste argomentazioni la pochezza
dell’analisi giuridica. Esse si basano sull’assunto che la nave che
batte una data bandiera è territorio del relativo Stato e che pertanto
per “frontiera” attraversata, ai fini di radicare la competenza
all’esame delle domande di asilo, si debba intendere anche l’essere
stato tratto in salvo sulla nave medesima. A conforto di questa tesi
viene chiamato l’art. 92 della Convenzione del 1982, secondo cui le
navi che battono la bandiera di uno Stato «nell’alto mare sono
sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva», dimenticando che l’art.
94 paragrafo 2 lettera b) della stessa Convenzione chiarisce che ciò
vale «in relazione alle questioni di ordine amministrativo, tecnico e
sociale di pertinenza delle navi». In assenza di un diritto dell’Unione
Europea che prevede una normativa specifica in materia di protezione
internazionale in Europa, la succitata tesi avrebbe forse una possibile
validità, ma lo sviluppo, dall’inizio del secolo ad oggi, del sistema
europeo di asilo va in direzione opposta. In particolare l’attenta
lettura della Direttiva 2013/32/UE (procedure) del Regolamento Dublino
III, anche per ciò che attiene l’individuazione dell’autorità preposta
alla ricezione delle domande, evidenzia che la domanda di asilo (o di
protezione internazionale) si può ritenere presentata solamente quando
il richiedente si trovi alla frontiera, nel senso del confine terrestre
del territorio nazionale, o all’interno dello stesso territorio, o nel
mare territoriale dello Stato coinvolto. Va, inoltre, ricordato che
«l’obbligo di soccorso delle persone in mare in condizioni di pericolo
prescinde oggettivamente dalla qualificazione giuridica soggettiva di
ognuna di loro (Par. 2.1.10 Allegato Convenzione SAR ratificata e resa
esecutiva con legge 147/1989) e solo quando sono poste in completa
sicurezza potranno essere qualificate giuridicamente, ciò che avviene
una volta che siano sbarcate, in quanto le operazioni di soccorso si
completano solo con l’approdo in un porto sicuro» (ASGI, documento
citato). Nello stesso senso, infine, va un recentissimo documento
emanato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati nel
quale si evidenzia come «gli Stati di bandiera delle navi che prestano
assistenza, in particolare nel caso di navi commerciali o di altre navi
private i cui comandanti non agiscono sotto il controllo dello Stato di
bandiera interessato in qualità di suo agente, non si può ritenere
abbiano un preciso obbligo giuridico […] di assumersi la responsabilità
in prima istanza di accogliere le persone soccorse, di ammetterle a una
procedura di asilo sul loro territorio e di concedere protezione
internazionale» ( UNHCR, Legal considerations on the roles and
responsibilities of States in relation to rescue at sea,
non-refoulement, and access to asylum, Geneve, 1st of december 2022).
Il Governo italiano sa tutto questo e, dunque, userà la nuova norma per
scopi propagandistici ovvero per gridare allo scandalo che tocca sempre
all’Italia accollarsi, oltre al salvataggio dei naufraghi, l’esame
della loro domanda di asilo anche quando il soccorso è effettuato da
una nave battente bandiera di altro Stato europeo.
La previsione di cui alla lettera c),
ovvero la previsione che sia chiesta nell’immediatezza dell’evento di
soccorso l’assegnazione del porto di sbarco è corretta. Qui però
scivoliamo nel grottesco in quanto le ONG effettuano sempre questa
richiesta e sono gli Stati, tra cui l’Italia, a tenere una condotta
omissiva non rispondendo alle richieste di coordinamento dei soccorsi.
Il contenuto della lettera d) e quello
della lettera f) possono apparire a prima vista ragionevoli
laddove, nella vaghezza della loro formulazione, richiedono che il
soccorso sia effettuato senza ritardo e senza mettere a repentaglio la
sicurezza della navigazione. Tuttavia quale sia la finalità reale,
ancorché nascosta, è stato nuovamente espresso dalla premier la quale,
nel video ricordato all’inizio, ha precisato che «le norme del Governo
vogliono circoscrivere il salvataggio dei migranti a quello che è
previsto da diritto internazionale con delle regole semplici: se ti
imbatti in una imbarcazione e salvi delle persone le devi portare al
sicuro e quindi non le tieni a bordo della nave mentre continui a fare
salvataggi multipli fino a quando la nave non è piena, perché quello
non vuol dire mettere la gente al sicuro e non vuol dire fare
salvataggio fortuito di naufraghi». Lo scopo reale delle nuove
disposizioni è quindi quello di impedire, o almeno ostacolare, i
soccorsi multipli. Il contrasto con il diritto internazionale (e
interno) in materia di soccorsi in mare non potrebbe, peraltro, essere
più stridente: l’art. 489 del Codice della navigazione dispone che «il
comandante di nave, in corso di viaggio o pronta a partire, che abbia
notizia del pericolo corso da una nave o da un aeromobile, è tenuto
nelle circostanze e nei limiti predetti ad accorrere per prestare
assistenza, quando possa ragionevolmente prevedere un utile risultato,
a meno che sia a conoscenza che l’assistenza è portata da altri in
condizioni più idonee o simili a quelle in cui egli stesso potrebbe
portarla» e, in modo ancor più stringente, il successivo art. 490
dispone che «quando la nave o l’aeromobile in pericolo sono del tutto
incapaci, rispettivamente, di manovrare e di riprendere il volo, il
comandante della nave soccorritrice è tenuto, nelle circostanze e nei
limiti indicati dall’articolo precedente, a tentarne il salvataggio,
ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle
persone che si trovano a bordo». Le disposizioni del nostro codice sono
del tutto conformi a quanto prevede la Convenzione ONU sul diritto del
mare che, all’articolo 98 paragrafo 1, dispone: «Ogni Stato deve
esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella
misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio
la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia
trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più
velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a
conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può
ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa». La normativa
internazionale è, ancora una volta, chiara: lo Stato deve esigere dal
comandante della nave che agisca per prestare soccorso. Fatta salva
l’esigenza di valutare gli eventuali rischi per la sicurezza della
nave, non ci può essere alcun margine di scelta da parte del comandante
di qualsiasi nave ad effettuare anche diversi soccorsi qualora nel
corso della propria navigazione intercetti più situazioni di pericolo e
altre navi non siano in grado di intervenire, né le autorità italiane,
salvo incorrere nella commissione di gravi reati, possono ordinare al
comandante della nave in pericolo di non effettuare tali soccorsi. Il
luogo nel quale si devono concludere i soccorsi deve sempre essere un
porto sicuro, ovvero, secondo le Linee guida Linee guida sul
trattamento delle persone soccorse in mare (Risoluzione MSC.167(78), un
luogo dove la vita e la sicurezza dei naufraghi non sono minacciate. Se
un’altra imbarcazione è in grado di intervenire rapidamente sul luogo
in cui v’è il pericolo di naufragio, ciò solleva la prima imbarcazione
dal compito di intervenire nuovamente ed essa si può senza indugio
dirigere verso il
place of safety
indicato ma solo se chi si propone di intervenire salva i naufraghi per
portarli verso un porto sicuro e non verso un luogo nel quale la vita
delle persone salvate, una volta sbarcate, sarebbe minacciata. Potrebbe
ad esempio il Governo italiano contestare il soccorso plurimo di una
nave delle ONG perché è a conoscenza dell’arrivo – o addirittura lo
richiede – di una nave libica? No perché «nessuno può, in violazione
del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a
entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in
cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla
pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o
trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà
dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della
religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale,
dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni
politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale
rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in
violazione del principio di non respingimento» (art. 4 paragrafo 1,
Regolamento (UE) n. 656/2014 sulla sorveglianza delle frontiere
marittime esterne).
C’è un’ultima questione, che rimane sotto traccia nel decreto legge:
le autorità italiane possano indicare lo
sbarco in un porto sicuro italiano che si trovi in zona molto lontana
dall’area in cui è avvenuto il soccorso? La Convenzione SOLAS
(Cap. V, Regola 33, par. 1-1) impone agli Stati di cooperare affinché i
comandanti delle navi che hanno prestato soccorso imbarcando persone in
pericolo in mare siano liberati dal loro impegno con la minima
deviazione possibile dalla rotta originariamente prevista. La
Risoluzione MSC 167(78) del 20 maggio 2004 (
Guidelines on the treatment of persons
rescued at sea), in applicazione degli obblighi previsti dalla
Convenzione SOLAS e dalla Convenzione SAR, stabilisce che porto sicuro
è quello del luogo in cui sono completate le operazioni di salvataggio
e in cui le persone salvate possono accedere ai loro bisogni
fondamentali (par. 6.12), precisando che la nave non può di per sé
essere considerata luogo sicuro anche se in grado di garantire
sicurezza immediata alle persone (par. 6.13). La stessa Risoluzione
precisa inoltre che «una nave non dovrebbe essere soggetta a ritardi
ingiustificati, oneri finanziari o altre difficoltà dopo aver prestato
assistenza alle persone in mare; pertanto gli Stati costieri dovrebbero
sollevare la nave non appena possibile» (par. 6.3).
Difficile non concludere che il decreto legge n. 1/2023 sia per metà
una norma vuota di significato e per l’altra metà un goffo e
illegittimo tentativo di piegare ai propri fini politici le norme del
diritto internazionale in materia di obblighi di soccorso in mare e di
accesso alla protezione internazionale. Nei prossimi giorni inizierà
l’iter parlamentare di conversione in legge del decreto, che non pare
in alcun modo emendabile ma che va solamente abrogato.