Fortezza
Friuli
La costruzione dell'emergenza migranti
di Gianfranco Schiavone, 5 agosto 2023
Nel suo rapporto “Migration trends in the estern Balkans” del 2022
l’IOM (Internation Organisation for Migration) ha registrato 192mila
migranti in arrivo nei paesi dei Balcani occidentali non appartenenti
all’UE (erano 120mila nel 2021).
Il 28%, la nazionalità più numerosa, è rappresentato da afgani; il 26%
da siriani. Il 19% dei migranti intervistati da OIM indicano l’Italia
come paese di destinazione, il secondo dopo la Germania con il 26%.
Dunque quanti migranti arrivano in Italia e quanti vi chiedono asilo?
Si tratta di un dato quasi inaccessibile. Il Ministero dell’Interno è
sollecito nel pubblicare sul proprio sito i dati degli arrivi via mare:
una pagina denominata “cruscotto statistico” viene aggiornata
quotidianamente con il numero degli arrivi, la suddivisione per età,
nazionalità etc. A fronte di questa encomiabile (e forse un tantino
ossessiva) informazione su chi sia in arrivo dal Mediterraneo, nulla,
ma proprio nulla, neppure con cadenza annuale, viene pubblicato sugli
arrivi via terra. Come se questi migranti non esistessero. Eppure
esistono, ma per sapere chi sono dobbiamo guardare i dati raccolti
dalle associazioni e dagli enti di tutela che operano sul campo.
E’ uscito da poco “Vite Abbandonate”,
un rapporto eccezionalmente rigoroso e completo sugli arrivi dei
migranti nella provincia di Trieste nel 2022, con alcuni primi dati
relativi al 2023.
Leggendolo, scopriamo che 13.100 persone, di cui la maggioranza afgani
(il 54%) “sono state incontrate e hanno ricevuto assistenza nell’area
della stazione di Trieste”; si tratta, come lo stesso rapporto
evidenzia, di dati sottostimati in quanto non tutti i migranti hanno
chiesto aiuto, o erano in transito in ore notturne o nascosti dentro
camion o altri mezzi che hanno attraversato la piccola provincia per
proseguire verso le loro mete.
Almeno 1400 sono stati i minori non accompagnati, nella quasi totalità
(84%) intendono proseguire il viaggio.
Difficile fare delle stime ma ragionevolmente possiamo ipotizzare che
il numero complessivo degli ingressi nel 2022 solo nella città di
Trieste (andrebbero aggiunti i dati, pur inferiori, di Gorizia e in
parte di Udine) si collochi in una forbice tra 15.000 e 20.000 con un
trend in aumento nel primo semestre del 2023. Un numero contenuto
rispetto ai 105.131 migranti che, secondo i dati del Ministero
dell’Interno, sono arrivati via mare nel 2022, ma certo ben
significativo. La larga maggioranza di coloro che arrivano via terra
non intendono rimanere in Italia (il 60% esprime l’orientamento
ad andare in altri paesi UE ritenuti più idonei a ricostruirsi una
vita).
Poco più di 5.000 sono stati infatti nel corso del 2022 i richiedenti
che hanno avuto accesso al sistema di accoglienza; si tratta dunque di
un impatto sul sistema d’asilo italiano piuttosto contenuto che sarebbe
quasi impercettibile se i richiedenti asilo che provengono dal confine
terrestre con la Slovenia venissero inseriti in via ordinaria nel piano
di ripartizione nazionale dell’accoglienza. Così però non è. Non v’è
infatti alcuna pianificazione a regime ma solo singole richieste di
trasferimenti formulate di volta in volta dalle prefetture della
regione e da luglio 2022 (quindi ben prima della fase attuale di
congestione del sistema nazionale di accoglienza) i trasferimenti dal
Friuli verso il resto del territorio nazionale sono stati
progressivamente rallentati provocando da un lato un micidiale
sovraffollamento di tutte le strutture esistenti in Friuli Venezia
Giulia, a partire da quelle collettive come la Caserma Cavarzerani di
Udine (oltre 550 presenze a fronte di 300 posti) e la Caserma Polonio
di Gradisca d’Isonzo (oltre 600 presenze, il doppio della capienza) e
dall’altro abbandonando in strada un numero elevato di richiedenti
asilo, nella speranza che gli stessi, “colpevoli” di essere arrivati in
Italia con le proprie gambe, si disperdano e vadano dove vogliono,
purché sia altrove.
Della mancata accoglienza dei richiedenti asilo a Trieste e del loro
abbandono in strada, anche d’inverno, il rapporto “Vite Abbandonate” fornisce un
quadro dettagliato fatto di liste verifi cate ed inoltrate alle
autorità competenti, e per conoscenza all’UNHCR (Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i Rifugiati). A tali segnalazioni nessuno ha
mai dato alcuna risposta.
L’accoglienza immediata dei richiedenti asilo privi di mezzi è un
obbligo di legge derivante dall’attuazione della Direttiva 2013/UE/33
ed è una misura fondamentale sia per garantire il rispetto dell’art. 3
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che proibisce i
trattamenti inumani o degradanti (tra i quali rientrerebbero i
trattamenti derivanti dall’abbandono in strada senza alcuna assistenza
pubblica), sia per evitare situazioni di pericolo per la sicurezza e la
sanità pubblica.
Dopo il rallentamento, con l’arrivo dell’estate i trasferimenti si sono
fermati del tutto e mentre scrivo questo articolo la situazione appare
già fuori controllo. Curiosamente però nessuna amministrazione locale
del Friuli, e soprattutto non la Regione, sollevano, né lo hanno mai
fatto in passato, il problema della totale insufficienza dei
trasferimenti dei richiedenti asilo né quello del mancato inserimento
degli arrivi via terra in Friuli in un piano di ripartizione nazionale.
A fronte di questo silenzio l’intero dibattito politico si concentra
invece, con dichiarazioni martellanti e quasi quotidiane, sull’apertura
di nuovi hotspot nel territorio della regione.
Il 3 agosto scorso il presidente della Regione FVG Fedriga ha
dichiarato che “l’hotspot è una struttura per alleggerire le presenze
migratorie in Friuli (…) non un grande centro dove le persone si
fermano per anni, ma viceversa, è una struttura di passaggio per
velocizzare l’allontanamento dei migranti dalla regione stessa (…)
Senza questo, essendo il Friuli una regione di confi ne, gli arrivi,
invece, se li dovrebbe tenere il Friuli e i comuni della regione”.
Anche volendo ignorare il linguaggio così sgradevole (velocizzare
l’allontanamento dei migranti come se essi fossero degli appestati) non
sembra che la logica sia il punto forte del governatore friulano,
nessun nesso infatti si rinviene tra la asserita necessità di un
hotspot e il mancato piano nazionale di rapida ripartizione dei
richiedenti asilo che ben potrebbe funzionare già ora usando le
strutture esistenti in Friuli con funzioni di prima accoglienza. Perché
Fedriga non chiede che sia operativa ora la ripartizione dei
richiedenti asilo che da un anno è quasi bloccata?
E in che modo la apertura dell’hotspot friulano (individuato, stando
alle ultime notizie, in una grande caserma dismessa e fatiscente nella
campagna nei pressi di Palmanova, in provincia di Udine, località
Jalmicco) dovrebbe aiutare la ripartizione: moltiplicando per magia i
posti in tutta Italia? Questo groviglio di sciocchezze permette di
comprendere cosa si cela dietro l’esplosiva situazione del Friuli
Venezia Giulia: l’invocazione degli hotspot non ha nulla a che fare con
la rapida collocazione dei richiedenti asilo ma è pretesto per
conseguire l’obiettivo politico della creazione di grandi centri chiusi
dove detenere i richiedenti asilo, come nell’impianto ideologico della
L. 50/23 (il cosiddetto “decreto Cutro”).
Il Friuli è una regione dove, più che nelle altre la fortuna politica
dell’attuale maggioranza è stata interamente costruita su tre cardini:
a) il deciso contrasto alla nascita di progetti di accoglienza
territoriale o diffusa da parte dei comuni;
b) il sostegno all’apertura di grandi centri ove ammassare i
richiedenti asilo e alzare la tensione sociale nel territorio
circostante;
c) l’eliminazione di ogni azione positiva da parte della Regione per
sostenere l’integrazione sociale degli stranieri, e specie dei
rifugiati verso i quali viene mostrato un malcelato disprezzo.
Esaminiamo brevemente questi tre aspetti:
1) con il miserabile numero di 268 posti di accoglienza nella rete SAI
(Sistema di Accoglienza ed Integrazione), solo sei comuni coinvolti e
zero progetti SAI per i minori non accompagnati, il Friuli Venezia
Giulia è senza dubbio la peggiore regione d’Italia, ovvero quella che,
in proporzione alla popolazione, ha il minor numero di posti di
accoglienza aventi standard elevati e finalizzati all’inclusione
sociale dei beneficiari.
2) Salvo la vistosa (e per questo avversata) eccezione di Trieste, dove
l’accoglienza diffusa è un modello storicamente radicato che riguarda
persino i CAS (centri di accoglienza straordinaria) a gestione
prefettizia, il territorio della Regione Friuli si caratterizza in
media per l’utilizzo di vecchie ed enormi caserme dismesse dove
confinare, in uno stato di degrado e totale isolamento sociale, la gran
parte dei richiedenti asilo. Tra esse spicca la sopraccitata ex caserma
Polonio a Gradisca d’Isonzo (paese di soli 6mila abitanti), dove, caso
unico in Italia insieme a quello di Caltanissetta, in un’unica area,
separati solo da un muro, sorgono sia il centro di accoglienza per
richiedenti asilo che il CPR (centro per i rimpatri) tristemente famoso
per le violenze accadute al suo interno e per il numero di decessi. Per
la settima volta con delibera votata a larga maggioranza il 31 luglio
2023 il Consiglio comunale di Gradisca ha chiesto al Governo la
chiusura di entrambe le strutture in quanto, come evidenzia la Sindaca
Tomasingic “non è pensabile insediare questi grandi centri in piccoli
Comuni come i nostri, l’impatto sul tessuto sociale è devastante”.
3) Il TU Immigrazione prevede, tra i principi fondamentali sanciti
all’art. 5 comma 5 che “Nell’ambito delle rispettive attribuzioni e
dotazioni di bilancio, le regioni, le province, i comuni e gli altri
enti locali adottano i provvedimenti concorrenti al perseguimento
dell’obbiettivo di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il
pieno riconoscimento dei diritti e degli interessi riconosciuti agli
stranieri nel territorio dello Stato, con particolare riguardo a quelle
inerenti all’alloggio, alla lingua, all’integrazione sociale, nel
rispetto dei diritti fondamentali della persona umana”. In totale
difformità con il ruolo che la norma primaria attribuisce alle regioni,
il Friuli Venezia Giulia ha recentemente modifi cato, con L.R. 3.03.23
n. 9, la previgente legge regionale sull’immigrazione; nel testo
attuale le azioni volte a rimuovere gli ostacoli che impediscono agli
stranieri di conseguire un pieno riconoscimento dei propri diritti
spariscono e vengono sostituite, fin dal primo articolo, da
“l’obiettivo generale di mitigare l’impatto sociale del fenomeno
migratorio nel territorio regionale” come se le migrazioni in sé non
fossero un cambiamento sociale complesso (e quindi con luci ed ombre)
ma solo un fenomeno apocalittico, portatore di funesti danni che si
possono solo mitigare.
L’ossessiva chiusura perseguita dalla politica estremista della Regione
Friuli, dalla quale si stanno in parte smarcando i politici del vicino
Veneto, dello stesso colore ma più pragmatici, produce in questa
(ancora) ricca ma triste regione investita in pieno dall’inverno
demografico, degli ingenti danni economici e sociali perché le
potenzialità che deriverebbero da una intelligente gestione dell’arrivo
dei rifugiati, che invece vengono isolati e cacciati, vengono
sperperate riducendo il territorio a fungere da sterile hub di
passaggio.
L’emergenza accoglienza in Friuli c’è, ma è un’emergenza voluta e
artificialmente costruita.
Gianfranco Schiavone è
Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, ex vice presidente
dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. È autore
di numerosi studi in materia di immigrazione e diritto d’asilo.
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