Tempo di attesa, di avvento, con il desiderio di scorgere e di ascoltare qualcuno che ci indichi la direzione con la sua presenza, le sue parole, le sue scelte, i suoi gesti…; qualcuno che dia voce, che interpreti, che rilanci i vissuti più profondi fatti di dolori e speranze, di disincanti e di ripresa di fiducia; che ci accolga, ci sproni, ci solleciti, ci rincuori.
Più di qualche volta, con una sorta di nostalgia, ci siamo chiesti che cosa direbbero oggi don Mazzolari, don Milani, padre Turoldo, padre Balducci, don Tonino Bello, don Diana, don Puglisi; cosa direbbe oggi Pasolini ed altri ancora. Tutti certamente denuncerebbero le tante espressioni di disumanità, le ingiustizie, le armi, le guerre, i pregiudizi, il razzismo; denuncerebbero soprattutto i poteri intrecciati che determinano queste situazioni e insieme provocherebbero la coscienza di ciascuno ad essere liberi e responsabili.
Si può certo attingere al patrimonio del loro insegnamento, con cui ancora si rendono presenti. Ora spetta a noi, altrimenti la nostalgia nei loro confronti può diventare per noi un alibi.
Il Vangelo di questa domenica (Marco 1,1-8) ci narra di un messaggero inviato per preparare la via, di una voce che grida nel deserto e sprona a raddrizzare i sentieri, perché si possa percorrere insieme il cammino della liberazione e della vita. Questa è la descrizione del profeta Giovanni che “proclama un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”.
Conversione anche etimologicamente significa voltare direzione; è una esemplificazione del cambiamento urgente e necessario di noi stessi, delle relazioni, della società, della Chiesa: pentirsi e chiedere perdono per aver contribuito al male direttamente o per non averlo contrastato, per le indifferenze e le omissioni.
Il male è esteso, ma noi siamo chiamati a vivere la direzione positiva del bene, ad alimentarlo e praticarlo: nell’ingiustizia a rispondere con la giustizia; alle armi e alle guerre con sensibilità e scelte di nonviolenza attiva e di costruzione della pace; ai pregiudizi e al razzismo, con la cultura e la pratica dell’accoglienza; alla usurpazione della Madre terra e delle multiformi espressioni di vita con la cultura della relazione e la pratica della custodia e della cura; in una visione materialistica ed esteriore dell’essere umano con una attenzione all’interiorità, alla spiritualità, alla cultura, alla creatività, all’arte nelle sue diverse espressioni, alla spiritualità come dimensione fondamentale della vita. La conversione riguarda queste dimensioni, riguarda il non perdere l’anima. “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima? Chi potrà restituirgli la sua anima?”
La gente accorre da Giovanni, confessa i peccati, cioè il male in cui è immersa e di cui è diversamente complice e con il l’acqua corrente del fiume Giordano esprime questo desiderio di lavacro, di purificazione, di cambiamento.
Giovanni è credibile per il suo essere e il suo stile di vita: “Era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico.” La credibilità di chi propone è fondamentale. Giovanni annuncia la venuta di uno più forte della forza dello spirito, così importante che lui non è degno di chinarsi per slegare i lacci dei suoi sandali. Andrà oltre al segno pure importante dell’acqua; il suo coinvolgimento riguarderà la profondità del cuore, della coscienza, di tutto l’essere.