E’ sempre difficile, alle volte talmente arduo da sembrare impossibile, passare dalle situazioni, dalle esperienze di morte, di mancanza di speranza, di angoscia ad una possibile, intuibile ripresa, percepita in qualche segno di luce, di conforto, di sostegno; e dalle nostre esperienze pare che questa ripresa abbia come riferimento importante, alle volte decisivo l’incontro con una persona, con un gruppo di persone che vivono un’esperienza positiva, la comunicano, la testimoniano con vicinanza profonda e discreta, con calore e tenerezza.
Non si tratta certo né di folgorazioni, né di miracoli, ma piuttosto di percezioni profonde, di un risveglio interiore lento nei tempi e nei modi, diverso a seconda della condizione esistenziale e del percorso di ciascuna persona.
Il Vangelo di questa domenica (Giovanni 20, 19-31) ci descrive questo itinerario. I discepoli di Gesù dopo la sua morte tragica sulla croce sono sgomenti e desolati.
“Se ne stanno con le porte chiuse per paura dei capi ebrei”: non si tratta solo della chiusura di un luogo fisico; il loro animo è chiuso alla speranza, perché sentono che la morte di Gesù è anche quella delle sue parole e dei suoi gesti che avevano iniziato e prospettato un’umanità diversa: di giustizia, di accoglienza, di perdono, di pace.
Gesù vivente oltre la morte entra inatteso in quella stanza; forse loro ripensando alle sue parole in qualche modo anche ci speravano, ma lo sgomento era più forte e paralizzante.
Lui li saluta con queste parole che poi ripete: “La pace sia con voi”.
Loro si rallegrano fin nel profondo a vederlo; avvertono nell'intimo del cuore e della coscienza che quel saluto è la ripresa, la conferma, il rilancio di tutte le sue parole e i suoi gesti; che quindi sono veri e possibili; che in definitiva non vincono le forze del potere, della violenza, del male, della morte; che l’amore può continuare sempre ad esprimersi e ad infondere il bene nell'animo e nei cuori, nei rapporti sociali, nel sostegno alla giustizia, alla verità, all'uguaglianza, alla fratellanza.
Riprendere la speranza significa dunque rivivere l’amore come fonte e sostegno della vita, come possibilità di relazioni nuove, nelle quali anche i limiti, le fragilità e gli errori sono accolti per poter favorire la loro guarigione e superamento. Decisiva quindi è la relazione allora come oggi con Gesù di Nazaret, ucciso e risorto; l’amore e la testimonianza che ci vengono da lui ci sono comunicati da chi lo testimonia con coraggio, fedeltà e coerenza.
Non è facile riprendere la strada della speranza e della fiducia, specialmente in certe situazioni. Lo testimonia anche Tommaso, uno dei discepoli: non è presente all'incontro con Gesù ed esprime agli altri i suoi dubbi e il suo scetticismo. La fiducia e la speranza per riprendere il loro movimento vitale chiedono affidamento, non riscontri immediati ed evidenti. Dopo otto giorni Gesù viene di nuovo in quella stanza; ci sono tutti, anche Tommaso; Gesù lo invita a toccare le ferite delle sue mani e del fianco: sono rimarginate, ma il segno è evidente, e lui è proprio vivo per continuare a comunicare amore e speranza. Anche noi possiamo esserne coinvolti. In fondo il senso della vita è comunicare qualche seme, qualche segno di bene.