Come si può intendere il significato della parola “salvezza”?
Certamente con riferimento a situazioni di pericolo, di
difficoltà, di fragilità da cui si è riusciti ad uscire.
Le ispirazioni originarie delle religioni parlano della salvezza
riferendosi al senso profondo della vita e della morte e indicano le
strade da percorrere per raggiungerla.
Per lungo tempo, anche nell’itinerario religioso da noi
conosciuto, si è insistito molto sulla salvezza dell’anima,
partendo da una visione dualistica dell’uomo, indicando un percorso
piuttosto intimistico e individualistico, staccato dalle relazioni e
dai processi storici.
Attualmente a partire da una concezione antropologica unitaria, di
considerazione della globalità dell’essere umano, si percepisce la
salvezza come liberazione delle condizioni di ingiustizia, violenza,
oppressione, disumanità, sfruttamento dell’ambiente vitale, per un
percorso significativo durante il quale le persone riescono a vivere
poco a poco in mondo più significativo e umano, in relazione fra loro e
tutti gli esseri viventi.
La salvezza chiama alla grande e irrinunciabile responsabilità
dell’uomo e insieme all’esigenza della luce, della forza, del sostegno
che vengono “dall’alto”, dalla presenza di Dio, per noi del Dio di
Gesù, sempre con attenzione e dialogo alle altri fedi religiose.
Si avverte l’esigenza che alla salvezza possano contribuire in
modo decisivo la presenza e la forza dello Spirito, una spiritualità
che attraversa, orienta, purifica e sostiene l’impegno della salvezza
in un percorso quotidiano, continuo.
Il Vangelo di questa domenica (Luca 13, 22-30) riporta la risposta
di Gesù ad un tale che gli ha chiesto se sono proprio pochi quelli che
si salvano.
Gesù parla di una porta stretta, cioè dell’esigenza della
coscienza; propone poi l’esempio d’una grande casa che accoglie
un’assemblea di persone. Alcuni arrivano in ritardo, bussano con
insistenza ma il responsabile risponde che non li conosce. Allora essi
ricordano di aver condiviso con lui l’insegnamento dell’appartenenza
religiosa e poi la stessa mensa. Alla fine lui, il responsabile dirà:
“Non vi conosco, allontanatevi da me voi tutti operatori di
ingiustizia!”
L’insegnamento è provocatorio nella sua chiarezza: non è
l’appartenenza alle radici cristiane, alla cultura cattolica, meno che
meno l’uso strumentale di appartenervi, come è avvenuto e avviene
scandalosamente anche a livello politico nel nostro Paese. La questione
decisiva è quella della giustizia. Chi non pratica la giustizia non
appartiene al mondo di Dio, ma ugualmente neanche ad un’umanità umana.
Il cardinale Martini ha detto che il nome più consono da accostare a
Dio è appunto: GIUSTIZIA. La salvezza si raggiunge praticando la
giustizia. Chi vive cosi è primo, anche se nella storia è considerato
ultimo per i suoi ideali e la sua disponibilità. Chi non pratica la
giustizia è ultimo di fronte a Dio e agli altri anche se primo nella
classifica dei ricchi privilegiati che cosi spesso si identificano con
i corrotti, gli evasori, i prepotenti.