Sono trascorsi 35 anni da quel lunedì 24 marzo 1980 quando alle 18.26 a San Salvador il vescovo Romero è stato colpito al cuore proprio mentre offriva il pane e il vino dell’Eucarestia che stava celebrando con un gruppo di persone nella cappella dell’hospitalito, un ospedale che accoglieva una sessantina di ammalati di tumore e dove lui dormiva in una abitazione di una modestia e di una essenzialità disarmanti. Ha appena pronunciato queste parole: “Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci spinga a dare anche il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore come Cristo; non per noi stessi, ma per dare al nostro popolo idee di giustizia e di pace.”
Nominato arcivescovo di San Salvador per le posizioni moderate e diplomatiche, poco a poco ha scoperto la realtà drammatica del Paese: l’oligarchia ricca e dominatrice con il supporto delle forze armate, della polizia, degli squadroni della morte che sequestravano e uccidevano; la reazione popolare armata; una drammatica guerra nella realtà del Salvador che provocò ottantamila morti. “Il popolo mi ha convertito al Vangelo”, dirà monsignor Romero.
Si immerge in quella drammatica situazione di povertà, di ingiustizia e di violenza, di sparizioni e di uccisioni; diventa voce dei senza voce; denuncia le atrocità e i loro responsabili, infonde fiducia e speranza in nome del Dio di Gesù di Nazaret e del suo Vangelo, vive in mezzo al popolo.
Per questo viene ucciso, nella illusione di spegnere la voce della profezia.
Il giorno precedente, domenica 23 marzo, aveva detto nell’affollatissima Eucarestia: “Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme: Fratelli, siete del nostro stesso popolo. Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non ammazzate. Nessun soldato è tenuto ad obbedire ad un ordine che va contro la legge di Dio[…]. E’ Tempo che recuperiate la vostra coscienza[…]. In nome di Dio allora, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!”
Era frequentemente minacciato di morte: “Come cristiano non credo alla morte senza risurrezione: se mi uccidono risorgerò nel popolo salvadoregno…se le minacce dovessero compiersi già da adesso offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la risurrezione del Salvador. Il martirio è una grazia di Dio che credo di non meritare.”
Una storia di morte e di vita luminosa che attua il Vangelo di questa domenica (Giovanni 12, 20-33), quando, alla richiesta di alcuni di conoscerlo Gesù risponde indicando la sua vita donata e la prossima morte, l’ora che sta per arrivare. “Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore invece porta molto frutto.”
Padre Ignacio Ellecurrìa, rettore dell’università dei Gesuiti di San Salvador ucciso nel novembre 1986 con altri cinque confratelli con una donna e sua figlia per il coinvolgimento nei processi di giustizia e di pace del popolo ha affermato: “Con monsignor Romero, Dio è passato in Salvador”. Una vita coinvolta con i poveri, con le vittime per un cammino di giustizia e di pace guidato dal Dio della liberazione e della vita.