DOMENICA 17 APRILE 2011 Vangelo di Matteo 21, 1-11 27, 45-56
17/04/2011
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Il Dio Crocifisso, annunciatore di pace
Vangelo di Matteo 21, 1-11 e 27, 45-56

Gesù e i discepoli stavano avvicinandosi a Gerusalemme. Quando arrivarono al villaggio di Bètfage, vicino al Monte degli Ulivi, Gesù mandò avanti due discepoli con queste istruzioni: “Andate nel villaggio che è di fronte a voi. Appena entrerete, troverete un'asina e il suo puledro, legati. Slegateli e portateli a me. E se qualcuno vi domanda qualcosa, dite così: "È il Signore che ne ha bisogno, ma poi li rimanda indietro subito"”.
Con questi fatti, si compiva ciò che Dio aveva detto per mezzo del profeta:
Dite a Gerusalemme:
guarda, viene il tuo  re!
Egli è umile,
viene a voi su un’asina,
su un asinello puledro di un’asina.
I due discepoli partirono e fecero come Gesù aveva ordinato. Portarono l'asina e il puledro, gli misero addosso i mantelli e Gesù vi montò sopra.
La folla era grandissima. Alcuni stendevano sulla strada i loro mantelli, altri tagliavano rami dagli alberi e facevano come un tappeto. La gente che camminava davanti a Gesù e quella che veniva dietro, gridava:
“Osanna! Gloria a Dio!
Benedetto colui che viene in nome del Signore!
Gloria a Dio nell'alto dei cieli!”.
Quando Gesù entrò in Gerusalemme, tutta la città fu in agitazione. Dicevano: “Ma chi è costui?”.  La folla rispondeva: “È il profeta!”. “È Gesù, quello che viene da Nàzaret di Galilea”

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la regione, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre Gesù gridò molto forte: “Elì, EIì, lemà sabactàni”, che significa “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Alcuni presenti non capirono bene queste parole e dissero: “Chiama il profeta Elia!”.
Subito, uno di loro corse a prendere una spugna, la bagnò nell'aceto, la fissò in cima a una canna e la diede a Gesù per farlo bere. Ma gli altri dissero: “Aspetta! Vediamo se viene Elia a salvarlo!”.
Ma Gesù gridò ancora, forte, e poi morì.
Allora il grande velo appeso nel tempio si squarciò in due, da cima a fondo. La terra tremò; le rocce si spaccarono, 1e tombe si aprirono e molti credenti tornarono in vita.
Usciti dalle tombe dopo la risurrezione di Gesù, entrarono a Gerusalemme e molti li videro.
L'ufficiale romano e gli altri soldati che con lui facevano la guardia a Gesù si accorsero del terremoto e di tutto quel che accadeva. Pieni di spavento, essi dissero: “Quest'uomo era davvero il Figlio di Dio!”.
Si trovavano là anche molte donne, che guardavano da lontano. Erano quelle che avevano seguito e aiutato Gesù fin da quando era in Galilea. Tra le altre, c'erano Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo.

È molto importante tenere aperta in continuità la questione di Dio, di quale Dio si tratti quando lo nominiamo, quando ci rivolgiamo a lui, quando ci dimostriamo dubbiosi sulla sua presenza o ci pare di negarla.
Non rifletteremo mai a sufficienza sull’uso strumentale di Dio: indistintamente il Dio dei poveri e dei ricchi; dei nonviolenti e operatori di pace e dei sostenitori delle armi e delle guerre; di coloro che accolgono le persone che fanno fatica, che sono colpite, ai margini, gli immigrati e di coloro che con parole, decisioni, azioni, anche a livello istituzionale e politico, manifestano pregiudizi, xenofobia, razzismo; il Dio dei potenti e dei prepotenti e il Dio degli umili;  il Dio delle vittime e quello dei carnefici; degli oppressi e degli oppressori. E si potrebbe indicare ancora qualche situazione. Il Dio che ci comunica Gesù di Nazaret nei suoi gesti e nelle sue parole, nelle sue continue relazioni con il Padre e con le persone, nella sua vibrante passione per Dio e per le storie delle persone pare proprio non possa ingenerare equivoci o interpretazioni diverse. E la meditazione sul Vangelo di questa domenica delle Palme o di Passione (Vangelo di Matteo 21, 1-11 e 27, 45-56) ci narra di Gesù annunciatore con le parole e i gesti di nonviolenza attiva e di costruzione della pace e, come diretta conseguenza, di Gesù come vittima, come Crocifisso, il Dio Crocifisso. Gesù entra nella città di Gerusalemme in festa su un puledro d’asina, come aveva intuito il profeta Zaccaria: “Dite a Gerusalemme: guarda, il tuo re viene a te. Egli è umile e viene seduto su un asino, un asinello, puledro d’asina.” Non si tratta di curiosità di cronaca, ma di indicazioni profonde.
Chi entrava nella città e attraversava i territori con i cavalli, i cariaggi, le lance, gli scudi manifestava la logica della conquista e del dominio.
Gesù entra invece per esprimere continuità alle parole e ai gesti della sua vita: di compassione, di premure, di cura, di salvezza nel senso profondo e globale della parola.
Entra nella città per servire coloro che la abitano, per costruire giustizia, relazioni umane significative, convivenza pacifica, coinvolgimento per il bene comune.
Oggi nelle chiese si vive la memoria di questo evento e in modo simbolico si tengono in mano per poi portarli nelle case i ramoscelli di ulivo come sollecitazione ad essere e diventare maggiormente costruttori di pace. Ma com’è possibile vivere, essere la memoria di Gesù di Nazaret e tenere in mano il ramoscello d’ulivo e poi dar ragione ai poteri che si esaltano, dimostrano prepotenza, arroganza e corruzione? Com’è possibile se poi si accettano le guerre che uccidono, feriscono, distruggono? Com’è possibile se poi si è indifferenti, diffidenti, anche xenofobi e razzisti?
La celebrazione con i ramoscelli d’ulivo è esigente, vincolante riguardo alla giustizia, alla nonviolenza attiva, alla costruzione della pace, all’accoglienza, alla solidarietà autentica.
Per il suo amore incondizionato che provoca al cambiamento dei cuori e delle coscienze, alla trasformazione delle istituzioni e della politica, alla liberazione della religione da ogni strumentalità perché resti e si alimenti come fede incarnata nella vita e nella storia, Gesù di Nazaret viene via via criticato e contrastato e poi arrestato, condannato a morte e ucciso. Diventa insopportabile al sistema che intreccia potere culturale, politico, economico, militare e religioso. Viene arrestato, accusato di magia perché guarisce; di disubbidienza alla legge del sabato perché agisce in favore delle persone anche in quel giorno; di bestemmia perché dice di essere il Figlio di Dio.
In realtà, si è aperto un conflitto radicale fra il Dio del tempio che sancisce separazione, discriminazioni ed esclusioni, gestito dai sacerdoti e il Dio di Gesù di Nazaret, umanissimo incarnato nella storia delle persone.
La sua passione è drammatica: la violenza dell’arresto nel Getsemani, preceduto dall’agonia, dalla lacerazione interiore per il senso del fallimento, la paura della violenza incombente, l’interrogativo se quella scelta sia proprio dovuta e poi l’affidamento al Padre e la perseveranza nella fedeltà e coerenza. Il processo farsa; la condanna a morte; il rapporto di complicità far autorità ebraica e procuratore di Roma; la tortura durissima della flagellazione; il diventare oggetto dello scherno e dei maltrattamenti dei soldati; il braccio della croce da portare fino al luogo pubblico della crocifissione; lo strazio di una morte atroce incombente; il senso del fallimento e dell’abbandono: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”; dramma radicale per l’umanità e la fede; affidamento radicale in Dio dall’abisso.
In Gesù il Dio crocifisso, impotente nel mondo e per questo a noi vicino in modo definitivo; la crocifissione è segno della malvagità e insieme dell’amore e della dedizione totali: Dio vittima fra le vittime; Crocifisso fra i crocifissi della storia.

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