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Paolo Iannaccone
Papa Francesco e la responsabilità di una eredità
di Paolo Iannaccone
dal sito Il Passo Giusto
Pubblichiamo la riflessione di don Paolo Iannaccone pubblicata sul sito de
Il Passo Giusto
.
Non un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca con in corso una terza guerra mondiale a pezzi: così Francesco, vescovo di Roma, dalla sua elezione nel 2013, ha declinato la forte crisi della postmodernità, caratterizzata da religiosità disincarnate dalla storia e dalla vita del popolo, e da scandali nella Chiesa; da politiche spesso ideologiche generatrici di disumanità; da una cultura dello scarto che fa di chi è fragile, debole, diverso, delle persone da sfruttare se non addirittura da eliminare. Una postmodernità contraddistinta da un male sociale che “non è tanto la crescita dei problemi, ma la decrescita della cura”; da un’indifferenza che si fa indurimento dei cuori anziché essere, come affermava Pierluigi Di Piazza, “l’unico nemico” da combattere; da un potere politico ed economico che, affermandosi con prepotenza e violenza, con la corsa agli armamenti e alle guerre, lascia indietro chiunque “altro” sia di ostacolo ai propri progetti di grandezza.
Contenuti forti che, forse non sempre hanno trovato nell’ultimo vescovo di Roma delle adeguate risposte o, all’interno della stessa Chiesa, opportune riforme. Ma non è questo il punto e non voglio correre il rischio di giudicare un pontificato così complesso che, oltre a portare con sé i limiti umani, ha perseguito un elemento fondamentale: avviare processi più che occupare spazi, perché le decisioni prese unilateralmente dall’alto, che pur possono dar sicurezza, risultano fragili se nel contempo non cresce una consapevolezza di popolo nella direzione di gesti e scelte capaci di aprire varchi nelle sabbie mobili delle incertezze liquide che ci avvolgono.
Preferisco pertanto guardare con franchezza ai processi che Francesco ha consolidato nel mio essere uomo prima ancora di credente e di prete, al perché l’ho sentito, al di là di tutto, fratello e compagno di strada, amico dei poveri e degli ultimi, padre di umanità.
Per parlarne mi piace partire dai sensi, tratteggiando seppur con parziali e personalissime pennellate le sfumature che in questi dodici anni hanno colorato, a mio modo di vedere, il suo pontificato.
La vista
Gli occhi, prima di tutto. Bergoglio non si è presentato come gerarca irraggiungibile dall’alto del suo scanno con uno sguardo giudicante – amava ricordare che l’unica occasione in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso è per aiutarla a rialzarsi! –, semmai si è fatto umile (il primo saluto è stato un “Buonasera!” e ha chiesto di essere benedetto dal popolo) con piccoli gesti di prossimità, a partire da una telefonata a chi mai si sarebbe aspettato di riceverla. Ha deciso di abbandonare i segni del potere scegliendo il potere dei segni, innumerevoli e intrisi di luce in questi anni.
Ci ha reinsegnato a guardarci negli occhi, accogliendo le nostre diversità, perché è l’incontro dei volti che ci salva la vita: ci fa superare ideologie e paure, ci dice chi siamo e chi vogliamo essere per l’altro, ci dice che l’altro può essere un dono per ciascuno anche se appartiene a un’altra cultura, professa un’altra religione, custodisce un altro modo di leggere la vita e la storia, di occuparsi della polis.
Ci ha aiutato a uscire da una visione manichea (destra/sinistra, tradizionalisti/progressisti, amici/nemici,…) per vivere la sfida della sinodalità (syn-hodos), del “camminare insieme”, tutti in ascolto di tutti, perché solo così si cresce in quella che don Tonino Bello amava chiamare la “convivialità delle differenze”.
Ci ha donato uno sguardo diverso, non più eurocentrico e nemmeno solamente occidentale. Ernesto Balducci parlava dell’“uomo planetario”. Lui, che i cardinali sono andati a prendere “quasi alla fine del mondo”, ha riportato all’attenzione lo sguardo che parte dalle periferie, e nemmeno da quelle esclusivamente geografiche, ma soprattutto esistenziali: lo sguardo dei poveri e degli ultimi (“come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”), il modo di pensare degli esclusi e delle vittime, degli emarginati e dei rinnegati (“se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?”), il vissuto dei migranti (“sentiamoci in cammino insieme a loro, l’incontro con i migranti è l’incontro con Cristo”), dei malati e dei carcerati, degli “irregolari” rispetto alle norme, insomma, di coloro di cui si parla nella pagina evangelica di Matteo 25.
Forte del fatto che “nella Chiesa c’è spazio per tutti”, ha esortato i credenti a fare di essa un “ospedale da campo” capace di prossimità e cura, di solidarietà e vicinanza, una “Chiesa in uscita”, che abiti la strada e le periferie, secondo lo spirito del Concilio Vaticano II, mai pienamente attuato. Perché “preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.
Ci ha insegnato a tenere fisso lo sguardo sulla realtà che ci circonda e che fa fatica, a non girarci dall’altra parte facendo finta di non aver visto. Nel corso del suo pontificato si è più volte scagliato contro la pedofilia, avviando una coraggiosa e necessaria “tolleranza zero”, che abbisogna ancora di affinare gli strumenti per favorire la lotta a quella che definiva “una mostruosità”.
Ci ha insegnato a dare il giusto rilievo alla presenza delle donne nella comunità ecclesiale (“la Chiesa è donna”); certo, siamo solo agli inizi, ma al di là di ogni aspetto ideologico, sono importanti i primi passi verso una “smaschilizzazione” della Chiesa, includendo le donne nei ruoli di governo a tutti i livelli. E lui stesso ne è stato promotore con un paio di nomine a guida di importanti dicasteri, nei secoli di esclusivo appannaggio maschile.
L’udito e il tatto
E poi le orecchie, che permettono non solo di sentire, ma di ascoltare in profondo il grido dei poveri e dei sofferenti; a vivere – per chi ritiene di averla ricevuta in dono – una fede inquieta, capace di vincere la mediocrità e l’accidia, l’egoismo e quell’indifferenza che, se lui la vedeva come malattia, virus che contagia la società, il presidente Mattarella un anno fa in visita alle Giornate sociali di Trieste definì “il cancro della democrazia”.
Orecchie capaci di ascoltare e di non incasellare automaticamente secondo leggi e precetti. Fondamentale lo spostamento del baricentro dalla dottrina al Vangelo, con attenzione alle storie di tutte le persone, senza pregiudizio ed esclusione alcuna, perché “la Chiesa non è una dogana”. E forse è questo uno dei motivi principali per cui non è stato amato da un mondo religioso intransigente, che su quelle regole basa le proprie sicurezze.
Ma non basta vedere e sentire, c’è bisogno anche del tatto. “Gesù vuole che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza” (esortazione ap. Evangelii Gaudium, il documento programmatico dell’intero pontificato). Come, nel suo ultimo giorno di vita, il bisogno di tornare in piazza per entrare in contatto con il popolo, cercandolo per condividere ancora gioie e speranze, tristezze e angosce. Dando spazio alla rivoluzione di quella tenerezza che alla lunga si rivelerà un modo inaspettato di fare giustizia e salverà il mondo.
Toccare i drammi umani è stato per Francesco un magistero nel magistero: non è un caso che il suo primo viaggio sia stato a Lampedusa e l’ultimo, solamente pochi giorni fa nel Giovedì Santo, tra i detenuti del Regina Coeli… per vedere si è avvicinato, così come ha fatto in tante altre occasioni, ribadendo la centralità di ogni persona, soprattutto di chi non ha voce; così a inizio Giubileo della Misericordia 2015, quando aprì lui stesso la Porta Santa nella cattedrale di Bangui, nella Repubblica Centrafricana, in mezzo al deserto. Rivoluzionaria è stata la scelta del voler rinunciare al palazzo apostolico per risiedere a Santa Marta, dove avrebbe incontrato ogni giorno gente con la quale entrare in dialogo, lasciandosi attraversare dalla parola (e dalla vita) degli ospiti di quell’albergo.
L’olfatto e il gusto
Toccare, avvicinarsi, chinarsi, porta talmente vicino all’altro che non può non essere coinvolto anche l’olfatto: famosa la sua metafora del pastore che porta su di sé l’odore delle pecore, che si lascia contagiare, che sa stare in mezzo alla sua gente non da funzionario della religione né da carrierista o clericale, ma da fratello, da servitore umile e disinteressato, perché “il vero potere è servire, il resto sono chiacchiere”. Indelebile l’immagine di Francesco che, inginocchiatosi, bacia i piedi ai leader contrapposti del Sud Sudan, gesto umilissimo e potente per scongiurare la pace. Pace, di sicuro la parola più marcata nel suo vocabolario, assieme a legalità (“la corruzione puzza”) e giustizia.
A vista, udito, tatto e olfatto, non può mancare il gusto. Dopo aver incontrato attraverso le parole del Vangelo l’umanissimo Gesù di Nazareth, erano quelle stesse parole di luce e di speranza che permetteva di assaporare, favorendo un discernimento sulle vicende dirimenti il nostro tempo. Tutto partiva dal gusto di quello speciale incontro. Un gusto che qualche volta poteva essere amaro quando, in fedeltà al Vangelo, la parola diventava scomoda, denuncia, profezia di un mondo “altro”, ancorato alla giustizia e alla pace, rispetto a quello voluto dai potenti di turno, che pur saranno in prima fila ai suoi funerali di sabato. Ecco allora la consegna nella sua ultima Pasqua: “nessuna pace è possibile senza un vero disarmo” e “l’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo”; ecco la consegna dello scorso mese di febbraio, dopo la pubblicazione da parte della Casa Bianca delle foto di migranti ammanettati e in catene, come un trofeo di guerra, in cammino verso l’aereo militare che li riportava in patria: un deciso dissenso verso quella “deportazione” perché “ferisce la dignità” di “persone che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente”. Senza parlare degli innumerevoli interventi sul denaro che “deve servire e non governare”, sull’economia “senza volto, che uccide”.
Insomma, l’invito è a non essere amministratori di paure, ma imprenditori di sogni, facendo nostro il sogno di Dio: un mondo solidale e fraterno, capace di “amicizia sociale”, di prendendosi cura gli uni degli altri (enciclica “Fratelli tutti”) e, insieme, del creato (enciclica “Laudato si’”). Continuando a lavorare sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune (documento di Abu Dhabi firmato con il grande Imam di Al-Azhar). Senza mai dimenticare – e chi si dimenticherà mai le immagini del Papa che sotto la pioggia sale in solitudine la scalinata di piazza San Pietro nel pieno della pandemia del 2020? – che siamo tutti sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma tutti necessari… perché non ci si salva da soli!
Sicuramente si potrebbero dire tante altre cose.
Mi sia permessa l’ultima, che rubo dalle parole di cordoglio del presidente Mattarella: “la riconoscenza nei suoi confronti va tradotta con la responsabilità di adoperarsi, come lui ha costantemente fatto”, per quegli obiettivi che si è prefisso. Un senso di responsabilità, dunque, perché “non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano” (Francesco, 20 aprile 2025): è questo ciò a cui siamo chiamati se vogliamo che quel faro di umanità alimentato da Francesco continui, anche grazie a ciascuno di noi, ad ardere nel buio della barbarie in cui siamo immersi. Se vogliamo che per tutti ci sia vita.
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