Tutti quelli che il Padre mi dà, si avvicineranno a me; e chi si avvicina a me con fede, io non lo respingerò. Non sono venuto dal cielo per fare quello che voglio io: devo fare la volontà del Padre che mi ha mandato. E questa è la volontà del Padre che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quelli che mi ha dato, ma, invece li faccia rivivere nell’ultimo giorno. Il Padre mio vuole così: chi riconosce il Figlio e crede in Lui avrà la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
La coincidenza della domenica con la data (2 novembre) della memoria personale e comunitaria delle persone a noi care, amiche, conoscenti; delle donne e degli uomini, delle comunità profeti e martiri, evidenza nella data cronologica, nel tempo dell’esistere la dimensione permanente nel tempo dell’essere che mette in relazione la vita, la morte, la continuità della vita offre ad essa il tempo e l’eternità, la storia e la trascendenza, la concretezza e il mistero. Una questione così aperta e continuamente interrogante, anche nei suoi necessari passaggi filosofici e teologici, non è mai astratta perché parte continuamente da volti, nomi, storie, relazioni con persone che continuano ad abitare la nostra vita, la nostra storia e che noi crediamo viventi nel Mistero di Dio e compagne e compagni di viaggio della nostra vita. Le parole del Vangelo di Giovanni ci coinvolgono a contemplare il futuro nel Mistero di Dio e proprio per questo ad assumere pienamente la storia, a farcene carico per contribuire alle ragioni, alle dinamiche, alle esperienze concrete di affermazione della vita, cioè della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato. "Devo fare la volontà del Padre mio che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quelli che mi ha dato, ma li risusciti all’ultimo giorno…". E ancora: " Chi riconosce il Figlio e crede in Lui avrà la vita eterna e li resusciterò nell’ultimo giorno…". Ma che senso ha dichiarare la fede nella risurrezione, nella continuazione della vita oltre la morte fisica se si accetta con complicità, fatalismo e rassegnazione la morte provocata, organizzata in modo impressionante sul Pianeta? Se non si reagisce a quella diffusa disumanizzazione che ammala il cuore e lo spirito? La vita e la morte, il vivere e il morire sono strettamente intrecciati, più di quanto si percepisca e si rifletta mediamente. Si considera comunemente la morte come evento naturale, ma spesso essa è appunto provocata, causata, organizzata. Non che la eliminazione delle cause possa indurre ad una logica di immortalità, ma certamente deve richiamare in modo pressante e insistente la nostra grande responsabilità per la vita di ogni persona, comunità, popolo, e insieme per tutti gli esseri viventi. Non è certo naturale la morte, con espressione più veritiera l’uccisione di 30 mila persone al giorno con la fame e la sete, la mancanza di medicine, di un bambino ogni cinque secondi. È disumana e inaccettabile l’ingiustizia strutturale che costringe centinaia di milioni di persone a sopravvivere, sempre in bilico fra vita e morte. Il commercio e la fabbricazione delle armi sono una terribile negazione della vita: già uccidono perché sottraggono risorse ai poveri e poi quando si usano nelle guerre, che mai risolvono le questioni: diffondono morte, feriscono, distruggono, alimentano lontananze, inimicizie, odi. Basti l’esempio del milione e 200 mila civili uccisi in Iraq dal 2003, in una guerra che con presupposti e dichiarazioni false avrebbe dovuto liberare un popolo. Si pensi all’insorgere di malattie causate da scelte di vita discutibili, dalla dipendenza dall’alcool e dalle droghe; alle stragi sulle strade; alle morti conseguenze della criminalità organizzata, a quelle sul lavoro. E ancora a tutte quelle situazioni in cui si fa fatica a vivere, in cui tribolate storie personali incontrano diffidenza, ostilità, discriminazione; alla condizione degli stranieri a cui in una logica di rifiuto si addebitano le cause di tutte le paure e le difficoltà della nostra società. Di fronte a queste situazioni si tende a nascondere la verità, a rappresentarla in modo artificioso, strumentale, camuffato, tante volte come normale, come inevitabile, ricavando una nicchia protettiva per sé, per il proprio gruppo, per la propria società, nella quale si può vivere anche la religione, non la fede, anche una vaga allusione alla continuità della vita oltre la morte. In questa situazione che riguarda in modi diversi le comunità locali e quelle dell’intero Pianeta in una interdipendenza sempre più stretta, noi scorgiamo i segni di resistenza, di progettazione, di esperienze di vita in atto, alternative alla prassi e alla logica di morte. In esse l’esperienza di coloro che morti nel corpo continuano a vivere sono fondamentali. Un processo di umanizzazione si alimenta nel ricordo dei nomi, dei volti, delle storie di chi ci ha preceduto, di chi ha vissuto con amore e dedizione; in particolare dei profeti, dei martiri, delle vittime; questa vicinanza piena di compassione ci illumina, ci infonde forza e sostegno; ci sollecita a coinvolgerci nell’impegno a sradicare le strutture di ingiustizia, violenza e morte; nel contempo a curare le ferite, a trasformare l’egoismo in generosità, la menzogna in verità, la violenza in non violenza attiva, l’arroganza in benevolenza; la xenofobia ed il razzismo in accoglienza e convivenza pacifica delle differenze; la religione, ingrediente sociale e politico del sistema, in fede profetica nella denuncia e coerente e fedele nella testimonianza; la Messa come rito staccato dalla vita in Eucarestia che celebra l’annuncio e l’anticipo della giustizia e della fraternità da concretizzare nella storia. La risurrezione nell’ultimo giorno comincia in quella di ogni giorno; riconoscere il Figlio che Vivente oltre la morte ci accompagna significa riconoscerlo nelle persone che incontriamo. Con ragionevole speranza, vivendo da fratelli e sorelle, riconoscendo Dio come Dio della liberazione e della vita.